mercoledì 5 dicembre 2012

Dopo il voto, il puzzle della Catalogna si complica.

Fonte: LIMES-Rivista Geopolitica




Alle elezioni anticipate CiU rimane primo partito ma subisce un inatteso crollo dei consensi. Ne beneficia la sinistra separatista di Erc; socialisti al terzo posto. Il fronte sovranista è in maggioranza, ma sarà difficile formare un governo stabile.

di Riccardo Pennisi

Il risultato del voto catalano del 25 novembre è stato davvero sorprendente. Si è trattato di un'imprevista quanto significativa battuta d'arresto per il partito nazionalista di centrodestra Convergència i Unió (CiU). Il partito, alla testa del governo regionale da due anni, aveva radicalizzato le sue posizioni solitamente moderate, adeguandosi al sentimento separatista ormai preponderante, così bene espresso dalla manifestazione oceanica che l'11 settembre aveva riempito le strade di Barcellona di bandiere catalane.

Questo evento, e il mancato accordo col governo centrale per un regime più favorevole di autonomia fiscale, avevano convinto Artur Mas, leader di CiU e presidente della Generalitat (l'amministrazione della Comunitat autonoma della Catalogna) a sciogliere il governo locale indicendo elezioni anticipate. Il voto, secondo i sondaggi plebiscitario, avrebbe conferito a lui e al suo partito la legittimazione politica necessaria a guidare, senza interferenze, il processo di autodeterminazione della regione.

Niente di più lontano dalla realtà: non solo CiU non ha ottenuto la maggioranza assoluta dei suffragi che aveva espressamente chiesto agli elettori, ma ha perso ben 8 punti percentuali rispetto al 2010, attestandosi a poco più del 30% dei consensi. L'esito dell'elezione regionale più partecipata degli ultimi trent'anni non era stato pronosticato da alcun istituto demoscopico: sono state le urne a certificare che la proverbiale insoddisfazione che caratterizza l'opinione pubblica catalana non risparmiava affatto il partito di governo.

Tuttavia, le preferenze dei catalani sono rimaste nel campo del separatismo. Infatti, a beneficiare del crollo di quello che, con ampio margine, resta comunque il primo partito della Catalogna, è stata più delle altre una forza politica di sinistra, da sempre a favore del distacco "senza se e senza ma" dal resto della Spagna: Esquerra republicana de Catalunya (Erc), guidata dal docente universitario Oriol Jonqueras, che ha più che raddoppiato i propri voti.

In generale, il sistema politico della Comunitat autonoma esce dal voto più frammentato che mai. Insieme ad Erc, sono altre due le forze politiche che sfiorano il 15% dei consensi: sono le filiazioni catalane dei partiti cardine del bipartitismo spagnolo. Il Psc (Partit dels socialistes de Catalunya) vi arriva in parabola discendente, perché peggiora ulteriormente il risultato del 2010, già minimo storico. Rischia ora seriamente di impantanarsi in una condizione di irrilevanza permanente, considerando che meno di un decennio fa i socialisti rappresentavano il partito di maggioranza relativa della regione e una delle colonne del bipartitismo catalano, oggi scomparso. Il nuovo rovescio elettorale è stato provocato da una poco credibile collocazione rispetto alle due fratture politiche, quella sociale e quella nazionale, attorno alle quali si sono mossi i flussi elettorali di questa consultazione.

Una parte della sconfitta di CiU è imputabile al malcontento creato dalla disoccupazione (23%) e dalle durissime politiche di tagli e austerità imposte alla regione dal governo di Mas; la Catalogna è la comunità autonoma più indebitata del paese, e si trova sull'orlo del fallimento. Ma chi ha preferito spostare il suo voto verso sinistra non ha scelto il Partito socialista, considerato responsabile, dai tempi di Zapatero premier, di fronte a una crisi economica senza precedenti, prima di non averla saputa evitare e poi di averla "curata" esclusivamente con medicine prescritte da Berlino e Bruxelles. Questa categoria di votanti ha orientato il proprio consenso su forze di opposizione più radicali, come Erc o i Verdi. È un comportamento che ha prevalso nelle grandi aree urbane e industriali, in particolare le zone costiere e l'immediato entroterra delle province di Barcellona e Tarragona.

 Altri elettori, al contrario, non hanno apprezzato la strategia "sovranista" che CiU aveva elaborato per guidare la Catalogna alla rinegoziazione delle condizioni di appartenenza o alla separazione dalla Spagna. Hanno dunque premiato per questo motivo le posizioni più nettamente indipendentiste di Erc o al contrario lo "spagnolismo" di altri partiti: la lista civica anti-autonomista Ciutadans o il Partido popular catalán (Ppc, l'altra forza politica legata direttamente a Madrid), che per la terza volta consecutiva aumenta i suoi voti e ottiene il miglior risultato di sempre: il 13%.

Anche in questo caso la linea dei socialisti catalani, tradizionalmente favorevole a una riforma in senso federalista dell'autonomismo spagnolo, ma più spostata su posizioni separatiste in occasione di questa campagna elettorale, è stata percepita come ambigua - considerata anche la diffidenza locale sulla reale volontà dei socialisti, a livello nazionale, di aumentare le competenze di cui gode l'amministrazione catalana - e impraticabile.

La sconfitta di CiU ha un forte impatto politico su scala regionale e nazionale: la forza politica che per il suo radicamento nella società catalana post-franchista è stata definita Partit de Catalunya ha aumentato i suoi voti solo nella tradizionale roccaforte della provincia di Girona, regno della piccola impresa agricola e industriale; li ha persi in tutte le altre, a cominciare da Barcellona.

Il premier Mariano Rajoy non si è naturalmente trattenuto dal sottolineare il "fallimento" della strategia di Mas, e ha invocato per il futuro "responsabilità e prudenza". In altre parole, l'attuazione della road map delineata da CiU, che avrebbe dovuto rapidamente portare la Catalogna a un referendum sull'autodeterminazione e alla scrittura di un testo costituzionale, si è fatta molto più difficoltosa. Non va dimenticato però che le forze autonomiste nel loro complesso sono tutt'altro che in ritirata: nel nuovo parlamento, circa un centinaio di deputati su 135 sono teoricamente favorevoli al dret a decidir, il diritto di decidere: cioè, al referendum.

Artur Mas si trova nella (scomoda) posizione di costruire una coalizione di governo attorno al proprio partito. Per riuscirci, il presidente della Generalitat dovrebbe scavalcare le due fratture che dividono l'opinione pubblica catalana: ciò significa trovare un accordo con i nazionalisti radicali di Erc e/o con i socialisti federalisti del Psc, stante l'assoluta indisponibilità dei popolari a partecipare a un governo dalle tinte così autonomiste.

Radicali e socialisti, da parte loro, non sembrano fare salti di gioia di fronte alla prospettiva di sostenere un governo espressione di un partito sconfitto nelle urne, che dovrà gestire con scarso capitale politico una situazione finanziaria disastrosa. Sebbene sembri scontato che Mas avrà la loro fiducia iniziale al parlamento di Barcellona, i due partiti si guarderanno bene dall'offrire un appoggio stabile al futuro esecutivo. Pur guardandolo da posizioni molto diverse (una radicalmente indipendentista, l'altra federalista), Erc e Psc potranno alternativamente condividere, e influenzare, il percorso politico attraverso cui Mas vuole arrivare alla riforma della struttura statale spagnola.

Ma certamente entrambi si opporranno a molte delle scelte economiche che CiU dovrà compiere, preferendo piuttosto godere della rendita elettorale che un'opposizione del genere garantisce - soprattutto, data la fragilità del governo che nascerà, in vista di probabili nuove elezioni anticipate tra un anno o due. D'altro canto, anche a Mas non converrebbe troppo associarsi con uno solo di questi due partiti: qualunque esso sia, avrebbe la possibilità di condizionare troppo fortemente l'esecutivo, perchè indispensabile al raggiungimento della maggioranza assoluta in parlamento. L'ipotesi di un tripartito sarebbe la più auspicabile in astratto, ma è la meno fattibile in concreto.

Le prospettive politiche della Catalogna, dunque, sono tutt'altro che semplici. Il voto ha impedito che un solo partito prendesse la guida di un processo che potrebbe portare la comunità autonoma a staccarsi dal resto del paese. Eppure, le forze favorevoli a un rapido raggiungimento dell'autodeterminazione sono una schiacciante maggioranza nel parlamento regionale. La delicatissima situazione economica sarà gestita da un esecutivo debole, costretto a contrattare con il governo centrale le risorse per non fallire e con gli altri partiti il sostegno parlamentare. Allo stesso tempo, Madrid non può certo permettersi di lasciare affondare finanziariamente la Catalogna (e le sue pretese indipendentiste): l'intera Eurozona non reggerebbe uno scossone del genere.

La composizione di questo complicatissimo puzzle rivelerà la forma della Spagna di domani.

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