Fonte: LIMES-Rivista Geopolitica
Alle elezioni anticipate CiU rimane primo partito ma subisce un inatteso
crollo dei consensi. Ne beneficia la sinistra separatista di Erc;
socialisti al terzo posto. Il fronte sovranista è in maggioranza, ma
sarà difficile formare un governo stabile.
di Riccardo Pennisi
Il risultato del voto catalano del 25 novembre è stato davvero sorprendente.
Si è trattato di un'imprevista quanto significativa battuta d'arresto
per il partito nazionalista di centrodestra Convergència i Unió (CiU).
Il partito, alla testa del governo regionale da due anni, aveva
radicalizzato le sue posizioni solitamente moderate, adeguandosi al
sentimento separatista ormai preponderante, così bene espresso dalla
manifestazione oceanica che l'11 settembre aveva riempito le strade di
Barcellona di bandiere catalane.
Questo evento, e il mancato accordo col governo centrale per un regime più favorevole di autonomia fiscale, avevano convinto Artur Mas, leader di CiU e presidente della Generalitat (l'amministrazione della Comunitat autonoma
della Catalogna) a sciogliere il governo locale indicendo elezioni
anticipate. Il voto, secondo i sondaggi plebiscitario, avrebbe conferito
a lui e al suo partito la legittimazione politica necessaria a guidare,
senza interferenze, il processo di autodeterminazione della regione.
Niente di più lontano dalla realtà: non solo CiU non
ha ottenuto la maggioranza assoluta dei suffragi che aveva
espressamente chiesto agli elettori, ma ha perso ben 8 punti percentuali
rispetto al 2010, attestandosi a poco più del 30% dei consensi. L'esito
dell'elezione regionale più partecipata degli ultimi trent'anni non era
stato pronosticato da alcun istituto demoscopico: sono state le urne a
certificare che la proverbiale insoddisfazione che caratterizza
l'opinione pubblica catalana non risparmiava affatto il partito di
governo.
Tuttavia, le preferenze dei catalani sono rimaste nel campo del separatismo.
Infatti, a beneficiare del crollo di quello che, con ampio margine,
resta comunque il primo partito della Catalogna, è stata più delle altre
una forza politica di sinistra, da sempre a favore del distacco "senza
se e senza ma" dal resto della Spagna: Esquerra republicana de Catalunya
(Erc), guidata dal docente universitario Oriol Jonqueras, che ha più
che raddoppiato i propri voti.
In generale, il sistema politico della Comunitat autonoma esce dal voto più frammentato che mai.
Insieme ad Erc, sono altre due le forze politiche che sfiorano il 15%
dei consensi: sono le filiazioni catalane dei partiti cardine del
bipartitismo spagnolo. Il Psc (Partit dels socialistes de Catalunya) vi
arriva in parabola discendente, perché peggiora ulteriormente il
risultato del 2010, già minimo storico. Rischia ora seriamente di
impantanarsi in una condizione di irrilevanza permanente, considerando
che meno di un decennio fa i socialisti rappresentavano il partito di
maggioranza relativa della regione e una delle colonne del bipartitismo
catalano, oggi scomparso. Il nuovo rovescio elettorale è stato provocato
da una poco credibile collocazione rispetto alle due fratture
politiche, quella sociale e quella nazionale, attorno alle quali si sono
mossi i flussi elettorali di questa consultazione.
Una parte della sconfitta di CiU è imputabile al malcontento creato dalla disoccupazione (23%)
e dalle durissime politiche di tagli e austerità imposte alla regione
dal governo di Mas; la Catalogna è la comunità autonoma più indebitata
del paese, e si trova sull'orlo del fallimento. Ma chi ha preferito
spostare il suo voto verso sinistra non ha scelto il Partito socialista,
considerato responsabile, dai tempi di Zapatero premier, di fronte a
una crisi economica senza precedenti, prima di non averla saputa evitare
e poi di averla "curata" esclusivamente con medicine prescritte da
Berlino e Bruxelles. Questa categoria di votanti ha orientato il proprio
consenso su forze di opposizione più radicali, come Erc o i Verdi. È un
comportamento che ha prevalso nelle grandi aree urbane e industriali,
in particolare le zone costiere e l'immediato entroterra delle province
di Barcellona e Tarragona.
Altri elettori, al contrario, non hanno apprezzato la strategia "sovranista"
che CiU aveva elaborato per guidare la Catalogna alla rinegoziazione
delle condizioni di appartenenza o alla separazione dalla Spagna. Hanno
dunque premiato per questo motivo le posizioni più nettamente
indipendentiste di Erc o al contrario lo "spagnolismo" di altri partiti:
la lista civica anti-autonomista Ciutadans o il Partido popular catalán
(Ppc, l'altra forza politica legata direttamente a Madrid), che per la
terza volta consecutiva aumenta i suoi voti e ottiene il miglior
risultato di sempre: il 13%.
Anche in questo caso la linea dei socialisti catalani,
tradizionalmente favorevole a una riforma in senso federalista
dell'autonomismo spagnolo, ma più spostata su posizioni separatiste in
occasione di questa campagna elettorale, è stata percepita come ambigua -
considerata anche la diffidenza locale sulla reale volontà dei
socialisti, a livello nazionale, di aumentare le competenze di cui gode
l'amministrazione catalana - e impraticabile.
La sconfitta di CiU ha un forte impatto politico su scala regionale e nazionale:
la forza politica che per il suo radicamento nella società catalana
post-franchista è stata definita Partit de Catalunya ha aumentato i suoi
voti solo nella tradizionale roccaforte della provincia di Girona,
regno della piccola impresa agricola e industriale; li ha persi in tutte
le altre, a cominciare da Barcellona.
Il premier Mariano Rajoy non si è naturalmente trattenuto dal sottolineare il "fallimento" della strategia di Mas, e ha invocato per il futuro "responsabilità e prudenza". In altre parole, l'attuazione della road map
delineata da CiU, che avrebbe dovuto rapidamente portare la Catalogna a
un referendum sull'autodeterminazione e alla scrittura di un testo
costituzionale, si è fatta molto più difficoltosa. Non va dimenticato
però che le forze autonomiste nel loro complesso sono tutt'altro che in
ritirata: nel nuovo parlamento, circa un centinaio di deputati su 135
sono teoricamente favorevoli al dret a decidir, il diritto di decidere: cioè, al referendum.
Artur Mas si trova nella (scomoda) posizione di costruire una coalizione di governo
attorno al proprio partito. Per riuscirci, il presidente della
Generalitat dovrebbe scavalcare le due fratture che dividono l'opinione
pubblica catalana: ciò significa trovare un accordo con i nazionalisti
radicali di Erc e/o con i socialisti federalisti del Psc, stante
l'assoluta indisponibilità dei popolari a partecipare a un governo dalle
tinte così autonomiste.
Radicali e socialisti, da parte loro, non sembrano fare salti di gioia
di fronte alla prospettiva di sostenere un governo espressione di un
partito sconfitto nelle urne, che dovrà gestire con scarso capitale
politico una situazione finanziaria disastrosa. Sebbene sembri scontato
che Mas avrà la loro fiducia iniziale al parlamento di Barcellona, i due
partiti si guarderanno bene dall'offrire un appoggio stabile al futuro
esecutivo. Pur guardandolo da posizioni molto diverse (una radicalmente
indipendentista, l'altra federalista), Erc e Psc potranno
alternativamente condividere, e influenzare, il percorso politico
attraverso cui Mas vuole arrivare alla riforma della struttura statale
spagnola.
Ma certamente entrambi si opporranno a molte delle scelte economiche
che CiU dovrà compiere, preferendo piuttosto godere della rendita
elettorale che un'opposizione del genere garantisce - soprattutto, data
la fragilità del governo che nascerà, in vista di probabili nuove
elezioni anticipate tra un anno o due. D'altro canto, anche a Mas non
converrebbe troppo associarsi con uno solo di questi due partiti:
qualunque esso sia, avrebbe la possibilità di condizionare troppo
fortemente l'esecutivo, perchè indispensabile al raggiungimento della
maggioranza assoluta in parlamento. L'ipotesi di un tripartito sarebbe
la più auspicabile in astratto, ma è la meno fattibile in concreto.
Le prospettive politiche della Catalogna, dunque, sono tutt'altro che semplici.
Il voto ha impedito che un solo partito prendesse la guida di un
processo che potrebbe portare la comunità autonoma a staccarsi dal resto
del paese. Eppure, le forze favorevoli a un rapido raggiungimento
dell'autodeterminazione sono una schiacciante maggioranza nel parlamento
regionale. La delicatissima situazione economica sarà gestita da un
esecutivo debole, costretto a contrattare con il governo centrale le
risorse per non fallire e con gli altri partiti il sostegno
parlamentare. Allo stesso tempo, Madrid non può certo permettersi di
lasciare affondare finanziariamente la Catalogna (e le sue pretese
indipendentiste): l'intera Eurozona non reggerebbe uno scossone del
genere.
La composizione di questo complicatissimo puzzle rivelerà la forma della Spagna di domani.
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