mercoledì 20 marzo 2013

Dopo la morte di Chavez.

FONTE: MZ-Il Giornale del Ribelle

Dopo la morte di Chavez, le speranze di sopravvivenza dell’esperimento da lui prospettato per il Venezuela sono affidate alla rete di solidarietà fra i diversi paesi dell’America latina che si sono dati governi popolari e anti imperialisti. Infatti quel subcontinente è l’area del mondo più avanzata da questo punto di vista.
Il Venezuela di Chavez, col suo bolivarismo, si rifà alla figura di Simon Bolivar, che nell’Ottocento fu l’eroe dell’indipendenza dal colonialismo spagnolo. Nell’area andina Evo Morales e Correa sono i campioni di un riscatto degli indios; in Argentina la presidente Cristina Kirchner si ricollega alla tradizione della sinistra peronista; il Brasile è orientato nel senso di una socialdemocrazia avanzata.

In tutti i casi, escluso forse il Brasile, la parola d’ordine unificante è: “Patria e Socialismo”. La stessa Cuba castrista ha sempre innalzato la bandiera dell’orgoglio patriottico: Patria o muerte.
Alla luce degli schemi Otto-Novecenteschi, siamo in presenza di una contraddizione.
Il socialismo era internazionalista, sognava un mondo senza frontiere. L’inno che i marxisti di tutto il mondo intonavano recitava: l’internazionale futura umanità.
Il patriottismo acceso, spinto fino al nazionalismo, era considerato una deviazione verso il fascismo.
Per questo i marxisti ortodossi bollarono come fascista, sia pure un fascismo “di sinistra”, il primo peronismo, che pure fu un movimento che infiammò le masse popolari dei descamisados col suo programma anti imperialista e anti capitalista.
Chavez è stato un nazionalista in camicia rossa, con ciò evidenziando anche iconograficamente il superamento di una barriera che non aveva ragion d’essere, come aveva già dimostrato  l’impronta fortemente patriottica che Stalin aveva dato al suo regime.

Queste considerazioni spiegano come oggi Chavez sia pianto sia dai gruppi che  si rifanno al comunismo, sia da quell’area che si considera in rapporto di continuità col fascismo sociale.
Potremmo salutare come positivo questo abbattimento di steccati, se non fosse che anche questa sorta di rossobrunismo sa di vecchiume, col suo proposito di operare una sintesi fra correnti politiche che appartengono a un passato irripetibile.
I termini delle questioni che oggi travagliano il mondo esigono parametri nuovi e nello stesso tempo antichi, di un antico che non può essere il vecchio rappresentato dalle false antitesi fra destra e sinistra, socialismo e fascismo, democrazia e autoritarismo.

In questo senso il Movimento Cinque Stelle appare il primo veramente ascrivibile al XXI secolo, col suo rifiuto nelle parole e nei fatti di essere ingabbiato in quelle dicotomie.
Tuttavia anche a questo proposito si affaccia un problema.
Sembra che si possa uscire da quelle strettoie soltanto rinunciando all’ideologia. Ma l’ideologia ha una funzione irrinunciabile, quella di ricondurre a una logica di fondo punti programmatici che altrimenti si presentano come frammentari.
Questo è precisamente il limite del programma di Cinquestelle, limite che scaturisce da un difetto di ideologia.

Non è vero che tutte le ideologie sono finite. C’è un’ideologia dominante, quella del libero mercato nella globalizzazione.
A quella ideologia se ne possono contrapporre due diverse.
Una è quella decrescista in un quadro antimoderno e in una dimensione economica rivolta al massimo possibile di autoproduzione e autoconsumo in aree regionali collegate ma ristrette.
L’altra è quella sovranista, il recupero delle sovranità nazionali, presupposto per ricostruire alleanze  con nazioni vicine che abbiano fatto la stessa scelta contro la globalizzazione del capitale: la via bolivarista dello slogan Patria e socialismo.
Il compito dei movimenti antisistema è dare concretezza e vigore a una di queste alternative oppure di trovare una possibile convergenza fra loro.
Sarebbe il modo migliore per raccogliere e far fruttare l’eredità di Chavez.

di Luciano Fuschini

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