Fonte: LIMES - Rivista di Geopolitica
In molti descrivono il primo mandato di Obama come un fallimento in politica estera,
rimarcando l'indecisione nella formulazione delle politiche e
l'esitazione nella loro realizzazione. Soprattutto in Medio Oriente.
Da Roosevelt in poi, gli Stati Uniti hanno reputato prioritaria la stabilità di questa regione.
E tutti i presidenti, democratici o repubblicani che fossero, non hanno
esitato a usare la forza per difendere l'equilibrio raggiunto. Questa
stabilità sarebbe stata incrinata a seguito del ritiro statunitense
dall’Iraq e ancora più lo sarà in vista del prossimo ripiegamento
afgano, che lascerà gli alleati arabi alla mercé del potente vicino
iraniano.
Al contempo, nel tentativo di “resettare” le relazioni con la Russia, Obama avrebbe permesso a Mosca,
assente dal Medio Oriente per due decenni, di resuscitare la propria
influenza al punto da permetterle di esercitare un diritto di veto su un
potenziale intervento Nato in Siria.
Ma questa percezione è realistica? Innanzitutto, occorre notare come nel 2009,
dopo otto anni di politica unilaterale, fosse prioritario mostrare al
mondo un approccio di politica estera differente da quella
dell'amministrazione Bush. In questa prospettiva Obama ha ottenuto dei
risultati importanti.
Il discorso del Cairo del 4 giugno 2009 è stato un capolavoro di retorica
che ha permesso agli Stati Uniti di restaurare a tal punto le proprie
relazioni con il mondo islamico che, quando nel 2011 venne ucciso Bin
Laden, non si assistette a grandi proteste. Anche in occasione della
“primavera araba” Obama agì molto saggiamente sostenendo le popolazioni
in rivolta e costringendo i “nostri bastardi” (NdA, citazione di Roosevelt in riferimento a Somoza) Mubarak e Ben Ali (e più tardi Gheddafi con la forza) a farsi da parte.
Arrivando all’Iran, Obama è riuscito negli ultimi quattro anni a soffocare economicamente e politicamente la Repubblica Islamica più di qualsiasi presidente americano dal 1979 ad oggi.
La politica iraniana di Obama può essere divisa in due parti.
Nel tentativo di instaurare un “nuovo inizio” Obama tese la “mano
dell'amicizia” alla Guida Suprema Ali Khamenei in occasione del
capodanno iraniano del marzo 2009. Il fine ultimo di questa strategia
era creare le condizioni per una conclusione “libica” che dirimesse la
controversa diatriba nucleare iraniana. Questa “mano amica” venne spinta
a tal punto che, nel giugno del 2009, con la popolazione iraniana
insorta contro i risultati delle elezioni presidenziali (ritenuti
fraudolenti), il presidente “rimase in silenzio”, come ricordato
quest’anno dallo sfidante Mitt Romney.
Tale postura fu tuttavia ambivalente in quanto accompagnata da politiche ostili, quali la firma di un disegno di legge che destinava un budget per il rovesciamento del governo iraniano; dal virus Stuxnet
che colpì il programma nucleare iraniano e dalla recente decisione di
rimuovere dalla lista ufficiale delle organizzazioni terroristiche
statunitensi i Mujahidin-e Khalq (Mek), organizzazione paramilitare attiva contro la Repubblica Islamica.
Il punto di rottura manifesto di questa politica ambivalente si registrò a maggio del 2010, quando
Erdoğan e Lula siglarono, su input dell'amministrazione statunitense,
un accordo con l'Iran finalizzato a spedire all’estero la maggior parte
dei depositi di uranio arricchito del paese persiano al 20%, in cambio
di combustibile per il reattore di ricerca di Teheran. Noncurante di
questo sviluppo, l’amministrazione Obama fece saltare tutto, assieme
agli alleati europei in sede di Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite, tramite la risoluzione 1929, finalizzata ad adottare una serie di
sanzioni che hanno portato all’attuale stato di strangolamento
internazionale dell’economia iraniana.
Cosa potrebbe accadere nei prossimi quattro anni?
Chiunque conosca i meccanismi della politica americana è cosciente del
grado di influenza dei presidenti statunitensi al loro secondo mandato.
Libertà di azione iniziata a dimostrarsi dalle recenti dimissioni di
Petraeus e dalle prossime destituzioni di Panetta e della Clinton.
Tuttavia con il Congresso in una situazione di stallo (con i democratici
in controllo del Senato e i repubblicani con la maggioranza nella
Camera dei Rappresentanti), Obama avrà difficoltà a portare avanti la
propria agenda interna; l’opportunità di agire in politica estera sarà
invece intatta. Con il 63% degli statunitensi che auspicano un minor
coinvolgimento in Medio Oriente, in base a un’indagine della Pew
Research Center del 18 ottobre 2012, e con il desiderio
dell'amministrazione americana di spostare il baricentro della propria
politica estera nel Mar Cinese Meridionale, va da sé la necessità di una
conclusione preliminare della questione iraniana.
Negli ultimi mesi ci sono state continue minacce israeliane relative a un attacco sui siti nucleari iraniani.
Le posizioni israeliane e americane sono profondamente interconnesse.
Da una parte Tel Aviv si mostra impaziente di colpire, dall’altra
Washington, pur difendendo i diritti di Israele e dei propri alleati
arabi, si mostra restia all’opzione militare. In tutto ciò il mondo,
trepidante, teme l’imminente inizio di una ecatombe che, dal Medio
Oriente, potrebbe contagiare tutto il pianeta. In realtà il gioco è più
complesso, con gli americani felici di usare le minacce israeliane per
esercitare pressioni sugli alleati europei ed asiatici in funzione
anti-iraniana.
L’opzione militare è da ritenersi probabile? No, per vari motivi. Primo:
un intervento anti-iraniano avrebbe bisogno del placet internazionale.
Tuttavia in sede di Nazioni Unite si andrebbe incontro al quasi certo
veto russo-cinese. Inoltre, a seguito della recente guerra libica, la
Lega Araba e buona parte delle nazioni europee sarebbero ritrose a
impegnarsi in prima istanza. Per cui gli Stati Uniti si troverebbero a
dover intraprendere un’avventura dall’esito incerto in compagnia di
Israele e, forse, del Regno Unito: brutta conclusione per un presidente
contrario alle azioni unilaterali.
Secondo, l'amministrazione Obama è alle prese con la necessità di risolvere
il problema del deficit e del debito pubblico americano. In
quest’ottica sono da leggersi anche i ritiri dall’Iraq e
dall’Afghanistan. Una nuova guerra non farebbe che espandere
ulteriormente questo buco.
Infine, anche il sistema Europa non sta attraversando un momento particolarmente florido. Un attacco all’Iran porterebbe alla sicura chiusura dello Stretto di Hormuz (da dove transita il 20% delle forniture mondiali di petrolio)
e a un attacco missilistico sugli impianti energetici delle nazioni
arabe del Golfo Persico, causando un forte rialzo dei prezzi petroliferi
e un certo aggravarsi della recessione mondiale.
Passiamo quindi all’opzione delle sanzioni economiche finalizzate a costringere la leadership iraniana a dismettere il proprio programma nucleare.
La teocrazia persiana è a conoscenza del destino capitato a Muammar Gheddafi
una volta accantonata l’arma negoziale atomica. Di conseguenza la Guida
Suprema, pur consapevole dei costi sociali di questa scelta, è propensa
a portare avanti questa situazione “gravosa” fino a quando non maturino
tempi migliori o la Repubblica Islamica non raggiunga il “livello
soglia” nucleare. Teheran ha più volte ribadito la propria contrarietà
teologica all’uso delle armi di distruzione di massa.
Nondimeno, in base a informazioni provenienti da al Arabiya,
la Repubblica Islamica ha recentemente convertito più di un terzo del
proprio uranio arricchito al 20% in U308, ossido di uranio,
indispensabile a far funzionare il reattore di ricerca medica di
Teheran, diminuendo così il proprio stock potenziale di uranio per la
costruzione di una eventuale testata atomica.
Tutto ciò lascia la strada aperta a una via negoziale.
Obama ha ribadito nella sua prima conferenza stampa dopo la vittoria
elettorale il desiderio di trovare una soluzione diplomatica al problema
Iran. Ha formulato un’ipotesi di compromesso: “Ci dovrebbe essere un
modo in cui [l'Iran] possa godere dell'energia nucleare pacifica, pur
continuando a soddisfare i suoi obblighi internazionali e a fornire
chiare garanzie alla comunità internazionale circa la sua volontà di non
perseguire la costruzione di un'arma nucleare”. I colloqui sono
bloccati da giugno in quanto gli iraniani volevano vedere con chi
avrebbero dovuto negoziare. Ora, con Obama in carica per altri quattro
anni, la via è aperta a colloqui preliminari segreti tra rappresentanti
di fiducia dei due governi, che portino a colloqui sostanziali e
scadenzati volti a raggiungere obiettivi di vasta portata e
soddisfacenti per ambedue le parti.
Come insegna la diplomazia, bisogna sempre lasciare una via di uscita onorevole al proprio avversario.
Durante la Crisi dei Missili, Kennedy negoziò il ritiro dei missili
sovietici da Cuba in cambio del ritiro dei Jupiter statunitensi in
Italia e Turchia. In questa prospettiva sono da vedersi i colloqui,
rivelati dal quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, relativi a
incontri avutisi in Bahrein negli ultimi mesi fra Valerie Jarrett,
consigliere di fiducia di Obama, e le controparti iraniane. A reggere i
fili dietro le quinte della delegazione iraniana ci sarebbe nientemeno
che Ali Akbar Velayati, storico ministro degli Esteri nonché consigliere
fidato di Khamenei.
Se da parte iraniana vi è la disponibilità a negoziare, tuttavia la piena volontà statunitense
è connessa a due scadenze temporali: le elezioni israeliane del 22
gennaio 2013 e le elezioni presidenziali iraniane di giugno 2013.
È risaputo che Obama e Netanyahu non si amino particolarmente.
Il primo ministro israeliano si è speso non poco nel supporto dello
sfidante repubblicano Romney. Obama lo ripagherà intervenendo
attivamente nella campagna elettorale di Ehud Olmert e Tzipi
Livni.Tuttavia Netanyahu, da grande animale politico qual è, ha trovato
la quadratura del cerchio. Conoscendo molto bene i sentimenti della
nazione israeliana sa che il modo migliore per neutralizzare Obama e per
assicurarsi la vittoria consiste nel deviare l’attenzione pubblica
verso le proprie paure ancestrali, ovvero la minaccia esistenziale araba. E quale miglior soluzione di una guerra “pre-elettorale” con Hamas che gli consenta di prendere numerosi piccioni con una fava?
Netanyahu si è garantito la vittoria elettorale. Ha costretto Obama a prendere una posizione filo israeliana sminuendone il lavoro di soft power
con il mondo arabo e facendo percepire la politica regionale degli
Stati Uniti come guidata dalle lobby israeliane presenti nel Congresso.
Infine, ha ipotecato l’avvio di negoziati irano-americani significativi,
perlomeno fino alla fine di gennaio, sapendo quanto la difesa dei
diritti dei palestinesi sia centrale nella retorica e nella politica
regionale di Teheran e quanto la leadership islamica non possa sedersi
al tavolo dei negoziati con un presidente statunitense poco credibile,
in special modo ora che Hamas si è nuovamente riavvicinata all’Iran
grazie al buon “lavoro” dimostrato sul campo dai missili Fajr loro
forniti.
Se questi postulati sono delle pregiudiziali esterne, in realtà il principale vincolo
alla riuscita delle negoziazioni riguarda la parte americana.
Washington non negozierà seriamente fintanto che a Teheran non vi siano
referenti politici di suo gradimento. Finora lo scopo ultimo della
politica statunitense è stato quello di aumentare in modo considerevole
le sanzioni per creare una situazione di crisi interna che possa
permettere l’emergere di referenti politici iraniani più moderati e più
inclini a un negoziato. Sono oramai in molti, anche all’interno dello
stesso establishment rivoluzionario, a mostrarsi sempre più dubbiosi
sull’effettiva redditività della prosecuzione di uno scontro di tale
intensità con la comunità internazionale.
Un recente sondaggio effettuato dalla Islamic Republic of Iran News Network (Irinn)
ha mostrato come il 63% degli intervistati desideri che si addivenga ad
un compromesso sul nucleare. È su questo che l’amministrazione Obama fa
affidamento. Ossia, che in prossimità delle presidenziali di giugno
2013 la pressione economica internazionale costringa la Guida Suprema a
indire elezioni più pluralistiche, accettando di far gareggiare (e
magari vincere) candidati riformisti.
Tuttavia, in tutte le sfide che si rispettino si gioca perlomeno in due:
è altamente improbabile che Khamenei si lasci soffiare via in tal modo
un potere tenacemente custodito e lentamente incrementato in vent’anni
di premierato. La Repubblica Islamica è però consapevole del fatto che
un'"atmosfera" più pluralistica le tornerebbe utile: ne incrementerebbe
il soft power in un momento in cui l’immagine esterna del
regime si è fortemente appannata nel mondo arabo, soprattutto a seguito
dell’appoggio dato al governo siriano.
Di conseguenza in questa eterna partita a scacchi fra Occidente e Oriente potrebbe prendere
piede l’ipotesi di un governo di unità nazionale guidato da un
burocrate apprezzato all’estero e di piena fiducia della guida; un
funzionario in grado di guidare al meglio il riavvicinamento con gli
Stati Uniti parallelamente a una gestione stabile degli affari interni.
Qui entrano in gioco Velayati e i recenti incontri irano-statunitensi divulgati da Yedioth Ahronoth.
L’ex pediatra, nell’ombra mediatica di questi ultimi vent’anni, è stato
il più fidato consigliere di Khamenei nelle questioni di politica
estera. Di conseguenza, il suo inserimento nelle negoziazioni è la
contromossa iraniana che segnala all’Occidente la potenziale candidatura
per le elezioni presidenziali del 2013 di un politico attento e
prudente, apprezzato in molti ambienti diplomatici europei, che potrebbe
riscuotere il gradimento americano e portare alla riduzione
dell’isolamento internazionale iraniano.
di Nima Baheli
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