sabato 8 dicembre 2012

Usa e Iran, prove di dialogo.

Fonte: LIMES - Rivista di Geopolitica


In molti descrivono il primo mandato di Obama come un fallimento in politica estera, rimarcando l'indecisione nella formulazione delle politiche e l'esitazione nella loro realizzazione. Soprattutto in Medio Oriente.

Da Roosevelt in poi, gli Stati Uniti hanno reputato prioritaria la stabilità di questa regione. E tutti i presidenti, democratici o repubblicani che fossero, non hanno esitato a usare la forza per difendere l'equilibrio raggiunto. Questa stabilità sarebbe stata incrinata a seguito del ritiro statunitense dall’Iraq e ancora più lo sarà in vista del prossimo ripiegamento afgano, che lascerà gli alleati arabi alla mercé del potente vicino iraniano.

Al contempo, nel tentativo di “resettare” le relazioni con la Russia, Obama avrebbe permesso a Mosca, assente dal Medio Oriente per due decenni, di resuscitare la propria influenza al punto da permetterle di esercitare un diritto di veto su un potenziale intervento Nato in Siria.

Ma questa percezione è realistica? Innanzitutto, occorre notare come nel 2009, dopo otto anni di politica unilaterale, fosse prioritario mostrare al mondo un approccio di politica estera differente da quella dell'amministrazione Bush. In questa prospettiva Obama ha ottenuto dei risultati importanti.

Il discorso del Cairo del 4 giugno 2009 è stato un capolavoro di retorica che ha permesso agli Stati Uniti di restaurare a tal punto le proprie relazioni con il mondo islamico che, quando nel 2011 venne ucciso Bin Laden, non si assistette a grandi proteste. Anche in occasione della “primavera araba” Obama agì molto saggiamente sostenendo le popolazioni in rivolta e costringendo i “nostri bastardi” (NdA, citazione di Roosevelt in riferimento a Somoza) Mubarak e Ben Ali (e più tardi Gheddafi con la forza) a farsi da parte. 

Arrivando all’Iran, Obama è riuscito negli ultimi quattro anni a soffocare economicamente e politicamente la Repubblica Islamica più di qualsiasi presidente americano dal 1979 ad oggi.

La politica iraniana di Obama può essere divisa in due parti. Nel tentativo di instaurare un “nuovo inizio” Obama tese la “mano dell'amicizia” alla Guida Suprema Ali Khamenei in occasione del capodanno iraniano del marzo 2009. Il fine ultimo di questa strategia era creare le condizioni per una conclusione “libica” che dirimesse la controversa diatriba nucleare iraniana. Questa “mano amica” venne spinta a tal punto che, nel giugno del 2009, con la popolazione iraniana insorta contro i risultati delle elezioni presidenziali (ritenuti fraudolenti), il presidente “rimase in silenzio”, come ricordato quest’anno dallo sfidante Mitt Romney.

Tale postura fu tuttavia ambivalente in quanto accompagnata da politiche ostili, quali la firma di un disegno di legge che destinava un budget per il rovesciamento del governo iraniano; dal virus Stuxnet che colpì il programma nucleare iraniano e dalla recente decisione di rimuovere dalla lista ufficiale delle organizzazioni terroristiche statunitensi i Mujahidin-e Khalq (Mek), organizzazione paramilitare attiva contro la Repubblica Islamica.

Il punto di rottura manifesto di questa politica ambivalente si registrò a maggio del 2010, quando Erdoğan e Lula siglarono, su input dell'amministrazione statunitense, un accordo con l'Iran finalizzato a spedire all’estero la maggior parte dei depositi di uranio arricchito del paese persiano al 20%, in cambio di combustibile per il reattore di ricerca di Teheran. Noncurante di questo sviluppo, l’amministrazione Obama fece saltare tutto, assieme agli alleati europei in sede di Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, tramite la risoluzione 1929, finalizzata ad adottare una serie di sanzioni che hanno portato all’attuale stato di strangolamento internazionale dell’economia iraniana.

Cosa potrebbe accadere nei prossimi quattro anni? Chiunque conosca i meccanismi della politica americana è cosciente del grado di influenza dei presidenti statunitensi al loro secondo mandato. Libertà di azione iniziata a dimostrarsi dalle recenti dimissioni di Petraeus e dalle prossime destituzioni di Panetta e della Clinton. Tuttavia con il Congresso in una situazione di stallo (con i democratici in controllo del Senato e i repubblicani con la maggioranza nella Camera dei Rappresentanti), Obama avrà difficoltà a portare avanti la propria agenda interna; l’opportunità di agire in politica estera sarà invece intatta. Con il 63% degli statunitensi che auspicano un minor coinvolgimento in Medio Oriente, in base a un’indagine della Pew Research Center del 18 ottobre 2012, e con il desiderio dell'amministrazione americana di spostare il baricentro della propria politica estera nel Mar Cinese Meridionale, va da sé la necessità di una conclusione preliminare della questione iraniana.

Negli ultimi mesi ci sono state continue minacce israeliane relative a un attacco sui siti nucleari iraniani. Le posizioni israeliane e americane sono profondamente interconnesse. Da una parte Tel Aviv si mostra impaziente di colpire, dall’altra Washington, pur difendendo i diritti di Israele e dei propri alleati arabi, si mostra restia all’opzione militare. In tutto ciò il mondo, trepidante, teme l’imminente inizio di una ecatombe che, dal Medio Oriente, potrebbe contagiare tutto il pianeta. In realtà il gioco è più complesso, con gli americani felici di usare le minacce israeliane per esercitare pressioni sugli alleati europei ed asiatici in funzione anti-iraniana.

L’opzione militare è da ritenersi probabile? No, per vari motivi. Primo: un intervento anti-iraniano avrebbe bisogno del placet internazionale. Tuttavia in sede di Nazioni Unite si andrebbe incontro al quasi certo veto russo-cinese. Inoltre, a seguito della recente guerra libica, la Lega Araba e buona parte delle nazioni europee sarebbero ritrose a impegnarsi in prima istanza. Per cui gli Stati Uniti si troverebbero a dover intraprendere un’avventura dall’esito incerto in compagnia di Israele e, forse, del Regno Unito: brutta conclusione per un presidente contrario alle azioni unilaterali.

Secondo, l'amministrazione Obama è alle prese con la necessità di risolvere il problema del deficit e del debito pubblico americano. In quest’ottica sono da leggersi anche i ritiri dall’Iraq e dall’Afghanistan. Una nuova guerra non farebbe che espandere ulteriormente questo buco.

Infine, anche il sistema Europa non sta attraversando un momento particolarmente florido. Un attacco all’Iran porterebbe alla sicura chiusura dello Stretto di Hormuz (da dove transita il 20% delle forniture mondiali di petrolio) e a un attacco missilistico sugli impianti energetici delle nazioni arabe del Golfo Persico, causando un forte rialzo dei prezzi petroliferi e un certo aggravarsi della recessione mondiale.

Passiamo quindi all’opzione delle sanzioni economiche finalizzate a costringere la leadership iraniana a dismettere il proprio programma nucleare.


La teocrazia persiana è a conoscenza del destino capitato a Muammar Gheddafi una volta accantonata l’arma negoziale atomica. Di conseguenza la Guida Suprema, pur consapevole dei costi sociali di questa scelta, è propensa a portare avanti questa situazione “gravosa” fino a quando non maturino tempi migliori o la Repubblica Islamica non raggiunga il “livello soglia” nucleare. Teheran ha più volte ribadito la propria contrarietà teologica all’uso delle armi di distruzione di massa.

Nondimeno, in base a informazioni provenienti da al Arabiya, la Repubblica Islamica ha recentemente convertito più di un terzo del proprio uranio arricchito al 20% in U308, ossido di uranio, indispensabile a far funzionare il reattore di ricerca medica di Teheran, diminuendo così il proprio stock potenziale di uranio per la costruzione di una eventuale testata atomica.

Tutto ciò lascia la strada aperta a una via negoziale. Obama ha ribadito nella sua prima conferenza stampa dopo la vittoria elettorale il desiderio di trovare una soluzione diplomatica al problema Iran. Ha formulato un’ipotesi di compromesso: “Ci dovrebbe essere un modo in cui [l'Iran] possa godere dell'energia nucleare pacifica, pur continuando a soddisfare i suoi obblighi internazionali e a fornire chiare garanzie alla comunità internazionale circa la sua volontà di non perseguire la costruzione di un'arma nucleare”. I colloqui sono bloccati da giugno in quanto gli iraniani volevano vedere con chi avrebbero dovuto negoziare. Ora, con Obama in carica per altri quattro anni, la via è aperta a colloqui preliminari segreti tra rappresentanti di fiducia dei due governi, che portino a colloqui sostanziali e scadenzati volti a raggiungere obiettivi di vasta portata e soddisfacenti per ambedue le parti.

Come insegna la diplomazia, bisogna sempre lasciare una via di uscita onorevole al proprio avversario. Durante la Crisi dei Missili, Kennedy negoziò il ritiro dei missili sovietici da Cuba in cambio del ritiro dei Jupiter statunitensi in Italia e Turchia. In questa prospettiva sono da vedersi i colloqui, rivelati dal quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, relativi a incontri avutisi in Bahrein negli ultimi mesi fra Valerie Jarrett, consigliere di fiducia di Obama, e le controparti iraniane. A reggere i fili dietro le quinte della delegazione iraniana ci sarebbe nientemeno che Ali Akbar Velayati, storico ministro degli Esteri nonché consigliere fidato di Khamenei.

Se da parte iraniana vi è la disponibilità a negoziare, tuttavia la piena volontà statunitense è connessa a due scadenze temporali: le elezioni israeliane del 22 gennaio 2013 e le elezioni presidenziali iraniane di giugno 2013.

È risaputo che Obama e Netanyahu non si amino particolarmente. Il primo ministro israeliano si è speso non poco nel supporto dello sfidante repubblicano Romney. Obama lo ripagherà intervenendo attivamente nella campagna elettorale di Ehud Olmert e Tzipi Livni.Tuttavia Netanyahu, da grande animale politico qual è, ha trovato la quadratura del cerchio. Conoscendo molto bene i sentimenti della nazione israeliana sa che il modo migliore per neutralizzare Obama e per assicurarsi la vittoria consiste nel deviare l’attenzione pubblica verso le proprie paure ancestrali, ovvero la minaccia esistenziale araba. E quale miglior soluzione di una guerra “pre-elettorale” con Hamas che gli consenta di prendere numerosi piccioni con una fava?


Netanyahu si è garantito la vittoria elettorale. Ha costretto Obama a prendere una posizione filo israeliana sminuendone il lavoro di soft power con il mondo arabo e facendo percepire la politica regionale degli Stati Uniti come guidata dalle lobby israeliane presenti nel Congresso. Infine, ha ipotecato l’avvio di negoziati irano-americani significativi, perlomeno fino alla fine di gennaio, sapendo quanto la difesa dei diritti dei palestinesi sia centrale nella retorica e nella politica regionale di Teheran e quanto la leadership islamica non possa sedersi al tavolo dei negoziati con un presidente statunitense poco credibile, in special modo ora che Hamas si è nuovamente riavvicinata all’Iran grazie al buon “lavoro” dimostrato sul campo dai missili Fajr loro forniti.

Se questi postulati sono delle pregiudiziali esterne, in realtà il principale vincolo alla riuscita delle negoziazioni riguarda la parte americana. Washington non negozierà seriamente fintanto che a Teheran non vi siano referenti politici di suo gradimento. Finora lo scopo ultimo della politica statunitense è stato quello di aumentare in modo considerevole le sanzioni per creare una situazione di crisi interna che possa permettere l’emergere di referenti politici iraniani più moderati e più inclini a un negoziato. Sono oramai in molti, anche all’interno dello stesso establishment rivoluzionario, a mostrarsi sempre più dubbiosi sull’effettiva redditività della prosecuzione di uno scontro di tale intensità con la comunità internazionale.

Un recente sondaggio effettuato dalla Islamic Republic of Iran News Network (Irinn) ha mostrato come il 63% degli intervistati desideri che si addivenga ad un compromesso sul nucleare. È su questo che l’amministrazione Obama fa affidamento. Ossia, che in prossimità delle presidenziali di giugno 2013 la pressione economica internazionale costringa la Guida Suprema a indire elezioni più pluralistiche, accettando di far gareggiare (e magari vincere) candidati riformisti.

Tuttavia, in tutte le sfide che si rispettino si gioca perlomeno in due: è altamente improbabile che Khamenei si lasci soffiare via in tal modo un potere tenacemente custodito e lentamente incrementato in vent’anni di premierato. La Repubblica Islamica è però consapevole del fatto che un'"atmosfera" più pluralistica le tornerebbe utile: ne incrementerebbe il soft power in un momento in cui l’immagine esterna del regime si è fortemente appannata nel mondo arabo, soprattutto a seguito dell’appoggio dato al governo siriano.

Di conseguenza in questa eterna partita a scacchi fra Occidente e Oriente potrebbe prendere piede l’ipotesi di un governo di unità nazionale guidato da un burocrate apprezzato all’estero e di piena fiducia della guida; un funzionario in grado di guidare al meglio il riavvicinamento con gli Stati Uniti parallelamente a una gestione stabile degli affari interni.

Qui entrano in gioco Velayati e i recenti incontri irano-statunitensi divulgati da Yedioth Ahronoth. L’ex pediatra, nell’ombra mediatica di questi ultimi vent’anni, è stato il più fidato consigliere di Khamenei nelle questioni di politica estera. Di conseguenza, il suo inserimento nelle negoziazioni è la contromossa iraniana che segnala all’Occidente la potenziale candidatura per le elezioni presidenziali del 2013 di un politico attento e prudente, apprezzato in molti ambienti diplomatici europei, che potrebbe riscuotere il gradimento americano e portare alla riduzione dell’isolamento internazionale iraniano.

 di Nima Baheli



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