sabato 13 ottobre 2012

La politica estera del quarto mandato di Hugo Chávez.

Fonte:LIMES-Rivista di geopolitica
di Niccolò Locatelli


Eletto presidente in maniera regolare per la quarta volta, Chávez dovrà dare la priorità alla politica interna. Questo mandato ne segnerà l'eredità, ma la crisi non permette di inseguire sogni di potenza regionale.

Poche ore dopo aver vinto in maniera regolare per la quarta volta le elezioni presidenziali in Venezuela, Hugo Chávez ha annunciato via twitter di aver parlato con i suoi omologhi Dilma Rousseff (Brasile), Evo Morales (Bolivia), Rafael Correa (Ecuador), Vladimir Putin (Russia) e Alexander Lukashenko (Bielorussia). Anche Ahmadi-Nejad ha provato a congratularsi con lui al telefono, ma è caduta la linea. Con la parziale eccezione di Dilma e senza dimenticare i fratelli Castro e l'Argentina kirchneriana, si tratta di alcuni tra i più noti alleati internazionali del colonnello venezuelano.

Non è dato sapere il contenuto di queste conversazioni, ma al di là del tono amichevole e degli auguri di rito è lecito ritenere che tutti gli interlocutori di Chávez sappiano che, retorica a parte, nel suo quarto mandato la politica estera avrà minore rilevanza - e minori risorse a disposizione rispetto al passato. Per capire perchè, occorre rileggere la storia del periodo chavista.

La politica estera dei primi dieci anni di Chávez (1998-2008)

Eletto nel 1998, il presidente venezuelano è balzato agli onori della cronaca internazionale nel primo decennio del XXI secolo non tanto per la sua politica interna, caratterizzata da una grande attenzione per le classi più umili e dalla scarsa attenzione per le regole del gioco democratico, quanto per la sua strategia internazionale: Chávez ha provato a rompere l'egemonia Usa in America Latina - frutto più dell'eredità storica che di un disegno preciso - e a fare del suo paese una potenza regionale.

Per mettere in pratica questo progetto anti-egemonico sono necessari due fattori: un'ideologia alternativa e ingenti risorse materiali.

Quanto all'ideologia, Chávez ha rielaborato il bolivarianismo - da Simón Bolívar, sfortunato eroe della stagione delle indipendenze latinoamericane, considerato il padre nobile dei tentativi di integrazione regionale - integrandolo con i precetti filosofici, economici e politici contenuti negli scritti del sociologo tedesco Heinz Dieterich, ideatore del “socialismo del XXI secolo”. Per rendere più chiara la scelta di campo, si è alleato con il líder máximo della rivoluzione cubana Fidel Castro. I due hanno ideato nel 2004 l'Alba, l'Alleanza Bolivariana dei Popoli della Nostra America, che basandosi sui concetti di welfare e assistenza economica si pone in antitesi ai meccanismi di integrazione proposti dagli Stati Uniti e incentrati sul libero commercio. A Cuba e Venezuela si sono negli anni aggiunti Bolivia, Nicaragua, Ecuador e alcuni Stati insulari caraibici.

Le risorse per sostenere questo progetto vengono dall'unico asset che il Venezuela possa vantare: il petrolio, di cui il paese è primo al mondo per riserve accertate. I prezzi record a cui è stata venduta questa commodity fino a quando la crisi globale non ha iniziato farsi sentire (2009) hanno dato a Chávez la possibilità di finanziare non solo le famose misiones in patria ma anche i vari alleati regionali (per esempio tramite PetroCaribe e PetroSur). Cuba in particolare beneficia enormemente dell'assistenza venezuelana: Caracas è oggi il principale partner di L'Avana, che in cambio del cappello ideologico e di alcuni medici e insegnanti riceve petrolio a un prezzo scontato e fondi per le infrastrutture. L'alleanza con il colonnello venezuelano è stato un colpo da maestro di Fidel Castro, che senza dover scendere a compromessi ideologici (e senza rischiare di ricevere pressioni in favore della democrazia) ha garantito all'isola una nuova fonte di sussidi, quindici anni dopo la fine dell'Unione Sovietica.

La retorica e gli atti simbolici sono un corollario fondamentale della strategia chavista: le invettive contro l'allora presidente Usa George W. Bush derivavano in parte dall'atteggiamento della Casa Bianca in occasione del fallito golpe del 2002, ma servivano anche a nascondere una scomoda realtà: gli Stati Uniti sono il principale partner commerciale del Venezuela, e Caracas ha bisogno di Washington molto più di quanto Washington abbia bisogno di Caracas. L'allentamento delle relazioni con il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale (2007) e la denuncia della Convenzione interamericana dei diritti umani (2012) sono gesti il cui significato simbolico - opposizione al sistema istituzionale architettato dagli Usa - è maggiore delle ricadute pratiche.

Anche la scelta dei partner internazionali rispecchia esigenze ideologiche e materiali. Chávez ha intessuto relazioni con (o speso belle parole per) tutti i leader o i paesi sgraditi agli Usa: Castro, Morales, Correa, Lukashenko, Putin, Bashir (presidente del Sudan), Mugabe (Zimbabwe), Assad (Siria), Gheddafi (Libia), Kim Jong il (Corea del Nord), Ahmadi-Nejad (Iran), la Repubblica Popolare Cinese. L'obiettivo era duplice: accreditare l'ascesa del Venezuela sullo scenario mondiale, conquistando al contempo l'ammirazione di una certa fetta dell'opinione pubblica occidentale, e procurarsi ulteriori risorse (armi dalla Russia, soldi e cooperazione dalla Cina e dall'Iran) per inseguire il sogno di diventare la potenza di riferimento in America Latina.

Al di là della vocazione universalista degli ideali del “socialismo del XXI secolo” infatti, il progetto chavista riguarda essenzialmente l'ambito latinoamericano. Alleanze come l'Alba o meccanismi di aiuto allo sviluppo come PetroCaribe nascono per fare del Venezuela un punto di riferimento, possibilmente imprescindibile per chi vi si lega. La contropartita della fornitura di petrolio a prezzi scontati è la lealtà politica e il sostegno alle iniziative chaviste. Lo stesso “gasdotto del Sud”, che avrebbe portato il gas venezuelano fino alla Patagonia integrando nel tempo gran parte dei paesi sudamericani, lungi dall'essere un'opera disinteressata avrebbe consegnato a Caracas le chiavi dell'autonomia gasifera dell'America Meridionale. Non sorprende che il progetto sia silenziosamente tramontato.

Cosa è cambiato dal 2009

Dal 2009 la politica estera di Hugo Chávez è meno arrembante che in passato; è lecito ritenere che questa tendenza continuerà anche nel suo quarto mandato per una serie di motivi.

Il primo in ordine temporale è stato l'insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca: un presidente statunitense democratico, giovane, nero e molto popolare è l'esatto contrario di un bersaglio facile come il suo predecessore George W. Bush. La retorica contro il Grande Satana a stelle e strisce ha perso incisività, al punto che lo stesso Chávez ha dichiarato che voterebbe per Obama alle elezioni presidenziali Usa di novembre. Ciò malgrado dal punto di vista della tutela della democrazia l'operato dell'attuale amministrazione in America Latina non sia stato esemplare (basti pensare al caso dell'Honduras).

L'elemento più dirompente dell'ultimo quinquennio è stato però l'esplosione della crisi economica. Nata negli Usa nel 2007, essa ha iniziato a farsi sentire in Venezuela nel 2009: in quell'anno il paese ha vissuto una forte recessione (-3.2%), proseguita anche nel 2010 (-1.5%), da cui si sta lentamente riprendendo. Nel frattempo il prezzo del petrolio, che rappresenta il 95% delle esportazioni venezuelane, è calato dai livelli record precedenti alla crisi, pur mantenendosi alto. Il peggioramento dell'economia internazionale è stato tre volte negativo per Caracas: ha scatenato una recessione, ha ridotto il prezzo della principale fonte di introiti, ha fatto calare la domanda di oro nero - in particolare quella degli Usa, come detto primo partner commerciale del Venezuela. In queste circostanze diventa più difficile finanziare gli alleati e inseguire grandi (e dispendiosi) progetti.

Anche la salute di Chávez ha influito sulla politica estera venezuelana: il presidente ha dichiarato di avere un cancro nel 2011 e di essere “completamente guarito” poco prima delle recenti elezioni. Nessuno sa con esattezza quali siano le sue condizioni e la sua aspettativa di vita, ma è innegabile che negli ultimi due anni non gli è stato possibile seguire l'agenda internazionale e girare il mondo come in passato.


Se Chávez sta male, molti dei suoi alleati storici non stanno meglio. Gheddafi è stato ucciso; Assad è alle prese con la guerra civile in Siria; Ahmadi-Nejad deve far fronte alle sanzioni economiche e non è scontato che sopravviva politicamente alle elezioni presidenziali iraniane del 2013. Per la Russia il Venezuela è un ottimo acquirente di armi, per la Cina un ottimo fornitore di petrolio, ma poco più. L'America Latina non figura tra le priorità di Mosca. Pechino è interessata alle risorse economiche del subcontinente e a mantenere buoni rapporti con i governi dell'area, anche perchè la sua presenza commerciale sta diventando sempre più incisiva. La Repubblica Popolare Cinese non è però interessata a crociate anti-statunitensi: se ci sarà, il conflitto con Washington si giocherà nell'Asia-Pacifico o su temi economici, non tra Caracas e L'Avana; ciò non toglie che Pechino stia da anni prestando al Venezuela denaro a un tasso inferiore a quello di mercato, in cambio proprio del petrolio. I partner latino-americani, a cominciare da Cuba, hanno poco da offrire e molto da chiedere. Certo, rimane Lukashenko.

Paradossalmente, proprio nel momento in cui la politica estera di Chávez è diventata meno ideologica sono arrivati i risultati migliori: con la Colombia è scoppiata la pace, dopo che nel 2008 la tensione era salita alle stelle. A tal fine è stata decisiva l'elezione a presidente del paese vicino di Juan Manuel Santos, nel 2010: questi al contrario di Uribe ha cercato la convivenza e non lo scontro con Chávez ed è stato ripagato dalla collaborazione del colonnello bolivariano. Attualmente il Venezuela partecipa come "paese accompagnatore" alle trattative tra il governo colombiano e la guerriglia delle Farc. L'estate scorsa, a pochi mesi dalle elezioni, Caracas è stata ammessa nel Mercosur, sfruttando la sospensione del Paraguay; per l'economia venezuelana questa novità è una sfida, visto che competere con le imprese brasiliane e argentine non sarà facile, ma politicamente l'ammissione equivale a una patente di legittimità.

Infine, l'agenda di politica interna è ricca di nodi irrisolti. In passato la politica estera è stata usata per aumentare il consenso e distrarre l'elettorato dai problemi, ma questo mandato è particolare: potrebbe essere l'ultimo di Chávez, per motivi di salute o per esaurimento della spinta propulsiva. Fatta salva l'attenzione alle classi più umili, negli anni il movimento rivoluzionario chavista si è radicato al potere, fino a diventare una sorta di “Stato nello Stato”, con l'ormai noto corollario di corruzione e inefficienze tipiche di ogni regime.

Non si sta accennando qui all'accentramento dei poteri nelle mani del presidente, alle limitazioni all'indipendenza del potere giudiziaro e alla libertà di espressione o ad altre carenze dal punto di vista istituzionale e democratico: carenze che ci sono (anche se Chávez ha vinto in maniera regolare tutte le elezioni cui ha partecipato), ma che non nascono e non moriranno con l'attuale presidente venezuelano, essendo caratteristiche di paesi - come il Venezuela - in cui le basi dello Stato di diritto e della democrazia liberale non sono state ancora completamente assimilate. Si sta invece accennando alla violenza endemica, alle infrastrutture precarie, a un'economia assolutamente non diversificata che rischia di rimanere schiava delle fluttuazioni del prezzo del petrolio.

L'eredità del periodo chavista si giocherà sulla risposta a queste problematiche, prima che sulla sua politica estera. Per tutti questi motivi, retorica a parte, la proiezione internazionale del Venezuela sarà minore che in passato.






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