Fonte: LIMES-Rivista di geopolitica
di Riccardo Pennisi, 9 ottobre 2012
A Barcellona la crisi rafforza le pulsioni identitarie: con le elezioni
del 25 novembre potrebbe avviarsi un processo di separazione dalla
Spagna. La nascita di uno Stato-nazione catalano sarebbe però un
boomerang: meglio accontentarsi dell'autonomia. Sarà decisiva CiU.
Dopo circa un sessantennio di stabilità, i confini di un paese dell'Europa occidentale potrebbero tornare a cambiare.
Fino a poco tempo fa sarebbe stato difficile prevedere che un processo del genere avrebbe riguardato la Catalogna.
Si tratta di un territorio (oggi una "comunità autonoma") in cui la
contesa identitaria non ha mai assunto la dimensione violenta
caratteristica di altre aree, come il Paese Basco e l'Irlanda del Nord.
Secondo vari sondaggi la maggioranza dei catalani, in passato distaccata
al riguardo, al momento considera l'indipendenza dalla Spagna come
l'opzione migliore.
L'11 settembre, festività nazionale catalana, oltre
un milione di persone ha manifestato a Barcellona con lo slogan
"Catalogna, uno Stato d'Europa": è un avvenimento tra i più rilevanti
dell'intera storia di Spagna. Grazie alla legittimazione conferita da
questo evento sensazionale, Convergència i Unió (CiU), il partito
nazionalista liberal-conservatore che governa la regione, ha chiamato la
cittadinanza al voto anticipato (25 novembre). Obiettivo: ottenere la
maggioranza assoluta per dirigere al meglio il delicato passaggio
politico, che dovrà essere caratterizzato dalla stesura di una carta
costituzionale e da un referendum sull'autodeterminazione. Oltre la metà
della popolazione, secondo i sondaggi, approva questa road map.
Il malessere catalano, anche se finora non si era mai espresso
così massicciamente in favore di un divorzio da Madrid, ha le sue
radici in alcuni nodi irrisolti della politica e della stessa struttura
territoriale spagnola. Dopo quarant’anni di dittatura franchista
ultracentralista, la costituzione del 1978 creò uno “Stato delle
autonomie” che riconobbe le diverse identità presenti nel paese,
disinnescando le spinte centrifughe.
Secondo il principio del café para todos non
solo le regioni storiche (Catalogna, Paese Basco, Galizia e più tardi
Andalusia), ma tutte le 17 Comunità autonome in cui è divisa la Spagna
godono di estese giurisdizioni, più altre trasferibili in seguito dallo
Stato. Ogni Comunità è regolata da uno statuto, che funge un po' da
"costituzione" locale.
Retta sin dalle prime elezioni democratiche (1980) da CiU e dallo storico leader Jordi Puyol, la generalitat
(l'amministrazione) della Catalogna è stata capace di conquistare la
gestione di materie come la pubblica sicurezza e l'istruzione:
attualmente dà lavoro a oltre 200 mila funzionari. CiU ha saputo far
valere il suo piccolo peso al parlamento di Madrid, offrendo negli anni
pragmatico sostegno a governi dell'uno o dell'altro colore in cambio di
risorse, investimenti, trasferimenti di competenze. La rivendicazione
indipendentista era esclusiva di un'altra formazione politica, radicale
di sinistra: Esquerra republicana de Catalunya.
L'egemonia di CiU venne rotta nel 2003: poco prima
del voto regionale di quell'anno, il segretario del Partito socialista
spagnolo (Psoe) José Luis Rodríguez Zapatero si impegnò ad accettare, se
fosse stato eletto premier, qualsiasi modifica allo Statuto catalano
che il parlamento di Barcellona avesse approvato. I catalani
riconoscenti portarono i socialisti al governo della loro regione e li
premiarono con una valanga di voti anche l'anno successivo, alle
elezioni nazionali. L'estatut de Catalunya fu modificato e la
maggioranza socialista a Madrid lo ratificò nel 2006. Il Partido Popular
(Pp), principale forza di opposizione, ricorse alla Corte
costituzionale contro il nuovo testo. Non solo la Catalogna vi si
autodefiniva "nazione", ma si attribuiva anche il potere giudiziario e
il potere legislativo in materia fiscale. L'alta corte, nel 2010,
nonostante una maggioranza di membri di nomina socialista, bocciò
proprio questi articoli; Zapatero, alle prese con la crisi, non spese
una parola per l'estatut. I catalani, infuriati, scesero già
allora in piazza a centinaia di migliaia (con lo slogan "siamo una
nazione") e alle successive elezioni punirono i socialisti col peggior
risultato di sempre, riportando al governo regionale CiU.
La Catalogna non vive un momento felice: la durissima congiuntura spagnola non l'ha risparmiata.
Già negli anni passati, era andata perdendo centralità economica,
cedendo lo scettro di area più produttiva di Spagna al Paese Basco e a
Madrid. Oggi è la Comunità autonoma più indebitata ed è stata costretta a
chiedere al governo 5 miliardi per non finire in bancarotta. La
disoccupazione è al 22% (leggermente inferiore alla media nazionale) e
tra i giovani supera la metà della forza lavoro.
Nel discorso di Mas, colpevole della situazione economica
(e quindi indirettamente dei pesantissimi tagli operati dal governo di
CiU) e responsabile del debito è il contributo eccessivo versato allo
Stato centrale e la scarsità di investimenti pubblici nella regione. Se
potessimo gestire da soli il nostro gettito fiscale come i baschi e i
navarri - dicono da Barcellona riferendosi a un antico privilegio ancora
in vigore - potremmo facilmente risanare il bilancio. I catalani sono
d'accordo: secondo i sondaggi, se il regime fiscale fosse modificato
rinuncerebbero a pretendere d'indipendenza.
A Madrid, dove nel frattempo è tornato al governo il Pp di Mariano Rajoy, non vogliono nemmeno sentir parlare di negoziati in questo senso. Intanto perchè proprio i popolari, tradizionalmente centralisti, disapprovavano l'estatut
che istituiva l'autonomia fiscale: la destra del partito vuole che si
mantenga il pugno di ferro; un'eccessiva arrendevolezza incoraggerebbe
poi le forze nazionaliste presenti in altre regioni. Infine, la Spagna
vuole a tutti i costi mostrarsi stabile sullo scenario internazonale. Il
"no" di Rajoy a Mas, che è la causa diretta del successo della
manifestazione dell'11 settembre, è quindi piuttosto motivato:
cambierebbe solo dopo una lunga e complessa trattativa.
Quale dovrebbe essere l'oggetto di questa trattativa?
L'ottenimento dell'autonomia fiscale è tutt'altro che scontato. Il
governo nazionale punta anzi a una ricentralizzazione delle competenze
concesse dallo "Stato delle autonomie". Il nuovo regime sarebbe inoltre
poco compatibile col principio di armonizzazione fiscale ora in voga a
Bruxelles. Infine - soprattutto se la svolta sovranista di CiU dovesse
rivelarsi strumentale - i termini dello scambio potrebbero dimostrarsi
squilibrati: Rajoy non ha bisogno di appoggi esterni godendo già di
maggioranza assoluta: potrebbe agire in modo tale da lasciare ai
politici catalani la responsabilità di rovesciare il tavolo e "rompere
la Spagna".
L'independència, infatti, infervora gli animi e le gradinate dello stadio Camp Nou di Barcellona,
ma presuppone una serie di problemi non trascurabili. Il nuovo stato
nascerebbe fuori dall'Ue: potrebbe entrarci solo con l'accordo unanime
dei membri. Come si comporterebbe in questo caso Madrid? Comunque, per
un periodo negoziale di durata non prevedibile, merci e capitali
catalani sarebbero esclusi dalla libera circolazione, perdendo l'accesso
al mercato spagnolo. Ecco perchè le imprese e le banche di Barcellona e
dintorni preferiscono la ricerca di un compromesso. Lo stesso Mas non
manca di puntualizzare come la sovranità della Catalogna non debba
consistere in un "addio alla Spagna".
L'autodeterminazione catalana può ancora essere declinata all'interno del quadro statale spagnolo.
Alcuni settori nazionalisti, così come buona parte dei socialisti,
appoggiano una soluzione federalista. Il vantaggio di mandare in
soffitta lo "Stato delle Autonomie" si accompagna però alla difficoltà
di costruire un nuovo sistema: alcuni (quanti?) "Stati" federali
compresi all'interno della Spagna, a sua volta suddivisa in altre
regioni con meno competenze. Un federalismo asimmetrico, dunque, perchè
non tutte le Comunità autonome hanno la volontà o la capacità di
trasformarsi in una specie di Land tedesco.
Dare una forma politica alle tante eredità e particolarità
culturali presenti nella penisola iberica è sempre stato un compito
arduo. La causa storica dell'attuale spinta separatista
catalana, oltre che nella crisi economica, può essere individuata nella
fine del terrorismo indipendentista basco: da quando l'Eta non uccide
più, anche un partito moderato (e il grosso dell'opinione pubblica) può
parlare di secessione senza essere associato a una banda armata.
D'altronde, tra Regno Unito e Scozia si è assistito a una dinamica
simile, resa possibile dalla fine dell'Ira.
I tentativi catalani di approfondire l'autonomia da Madrid sono stati numerosi durante i secoli,
e spesso decisamente sfortunati. Resta però da chiedersi quanto senso
abbia la nascita di un nuovo Stato nazione in Europa, quando il
confronto geopolitico del nostro continente avviene con entità come
Cina, Stati Uniti, Russia o Brasile. Nella stessa Unione Europea, le
capitali tendono a pedere il loro potere decisionale in favore di centri
alternativi come Francoforte, Bruxelles o Berlino.
La Catalogna sarebbe dunque davvero indipendente? In ogni caso, i suoi abitanti non vogliono rinunciare alla loro sospirata autodeterminazione.
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