martedì 23 ottobre 2012

I negoziati tra Colombia e Farc e l’occasione di Castro e Chávez.

LIMES-Rivista di Geopolitica

Un murales pro-Farc in Colombia


Il governo di Santos e la guerriglia marxista-leninista hanno iniziato i colloqui di pace con la speranza di terminare un conflitto che dura dal 1964. I leader di Cuba (paese garante con la Norvegia) e del Venezuela (paese accompagnante con il Cile) avrebbero molto da guadagnare dal successo delle trattative.

È ufficialmente iniziato a Oslo il dialogo tra le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia-Ejercito del Pueblo (Farc) e il governo del paese andino, attualmente presieduto da Juan Manuel Santos, per porre fine a un conflitto che dura dal 1964. La Norvegia e Cuba - dove avranno luogo i successivi incontri tra le parti - sono paesi garanti del processo di pace, mentre il Cile e il Venezuela sono "paesi accompagnanti". L'esito di queste trattative dipende principalmente da Bogotá e dalla guerriglia, due entità tutt'altro che monolitiche, ma la loro evoluzione avrà un effetto anche sulla Cuba dei fratelli Castro e sul Venezuela del rieletto Hugo Chávez.

Il governo e le Farc hanno concordato durante un incontro estivo a L'Avana un'agenda in 5 punti da cui iniziare il negoziato. Questi punti sono: lo sviluppo rurale (la riforma agraria è una rivendicazione storica della guerriglia), la partecipazione politica, la fine del conflitto armato (che implica la restituzione delle armi e l'integrazione dei guerriglieri nella vita civile), il problema delle droghe (sostituzione delle coltivazioni illegali, stop alla produzione e vendita di stupefacenti) e quello delle vittime (si discuterà di diritti umani e si cercherà di stabilire la verità). Ognuno di questi temi presenta varie incognite ed elementi che potrebbero far naufragare il dialogo, come è già accaduto in passato.

Oltre all'incontro dello scorso agosto, dopo l'apertura formale dei colloqui a Oslo il resto della trattativa si svolgerà a Cuba. Per il regime - in particolare per Fidel Castro - sarebbe una vittoria diplomatica se il governo colombiano e la guerriglia di ispirazione marxista-leninista arrivassero a un accordo definitivo. Da poco dopo il trionfo della rivoluzione castrista (1959) alla fine della guerra fredda il governo comunista di L'Avana è stato considerato una minaccia alla pace e alla stabilità mondiale, per via dei suoi legami con l'Unione Sovietica e del suo attivismo economico, politico e militare, non confinato all'emisfero occidentale.

Il negoziato tra Farc e Bogotá, nel quale l'isola ha la stessa qualifica di un paese simbolo della pace come la Norvegia, è l'occasione per emendare questo giudizio. Venticinque anni dopo l'assegnazione del Nobel per la pace ad Oscar Arías e 50 anni dopo la crisi dei missili, Castro potrebbe avere un ruolo simile a quello del presidente costaricano, la cui mediazione fu decisiva per terminare i conflitti in America Centrale. Il líder máximo non ha mai avuto rapporti calorosi con le Farc e ha reso nota da anni (anche attraverso un libro) la sua opposizione al proseguimento della lotta armata. Per motivi anagrafici e di salute, è lecito ritenere che il processo di pace in Colombia sia una delle ultime grandi avventure di politica estera in cui si imbarca Cuba mentre Fidel è ancora in vita: se questi riuscisse a indirizzare le trattative verso il successo, il giudizio complessivo sulla sua figura non potrebbe non tenerne conto.

Il presidente venezuelano Hugo Chávez ha aspirazioni solo in parte simili. Anche lui potrebbe rivendicare parte del merito di un'eventuale fine del conflitto colombiano: il suo nuovo atteggiamento nei confronti del governo della Colombia e delle Farc stesse da quando a Bogotá è stato eletto Juan Manuel Santos è evidente. Questo cambiamento deve molto all'ex ministro della Difesa di Uribe, che una volta divenuto presidente ha adottato una linea conciliatoria nei confronti di Caracas. D'altra parte, il mutato contesto internazionale ha spinto lo stesso Chávez a riavvicinarsi alla Colombia, data l'impossibilità di perseguire sogni di grandeur emisferica. Il Venezuela, una volta santuario delle Farc, è diventato in poco tempo un alleato del governo della Colombia, verso cui ha iniziato a estradare membri della guerriglia e narcotrafficanti.

In caso di successo del processo di pace, Chávez avrebbe quindi buon gioco a esaltare il ruolo del suo paese come facilitatore e mediatore-chiave. Otterrebbe così anch'egli, come Castro, una vittoria diplomatica con cui distrarre e consolare i fautori dell'ormai irrealizzabile (in politica estera) progetto bolivariano.

Il buon esito delle trattative tra Farc e governo della Colombia avrebbe per il Venezuela anche una decisiva ricaduta pratica: contribuirebbe al ritorno della pace e della stabilità lungo gli oltre 2 mila chilometri del confine. Su questa zona i rispettivi Stati faticano ad esercitare la loro autorità: il contrabbando è florido, guerriglie e paramilitari agiscono indisturbati, si moltiplicano le violazioni dei diritti umani patite dai civili; in Venezuela ci sono attualmente oltre 200 mila profughi colombiani, di cui solo una minoranza è stata ufficialmente accettata con lo status di rifugiato da Caracas.

La risoluzione del conflitto faciliterebbe anche l'interscambio commerciale: questo, che era superiore ai 7 miliardi di dollari nel 2008, era precipitato sotto i 2 miliardi di dollari nel 2010, dopo che il raid colombiano in Ecuador contro un capo delle Farc aveva suscitato l'ira di Chávez e il raffreddamento delle relazioni bilaterali. Quella cifra sta lentamente crescendo e l'eventuale pace in Colombia alimenterebbe la ripresa; oltretutto, il Venezuela può sfruttare il paese vicino come base per far arrivare più rapidamente il suo petrolio alla Cina.

La Colombia sarebbe, naturalmente, il principale beneficiario di un accordo di pace condiviso e duraturo; il suo futuro è principalmente nelle mani del suo governo e delle Farc. Fidel Castro e Hugo Chávez hanno però un ruolo in queste trattative, e tutto l'interesse a che vadano a buon fine.

di Niccolò Locatelli
18 ottobre 2012


La storia delle trattative precedenti e l'evoluzione delle Farc. 

 È materia di dibattito storico se la guerra civile colombiana duri dal 30 maggio 1964, o addirittura dal 9 aprile del 1948. La seconda è la data in cui Jorge Eliécer Gaitán, leader populista del Partito liberale, fu assassinato da un conservatore.

L’omicidio scatenò il Bogotazo, come fu chiamata la violenta insurrezione della capitale contro il governo conservatore. Repressa a Bogotá, la rivolta si riaccese nelle campagne, sfociando in un confronto armato tra liberali e conservatori che fu chiamato Violencia, e che provocò tra i 200 e i 300 mila morti. Per porvi termine prese il potere il generale Gustavo Rojas Pinilla, che cercò di superare le ataviche rivalità tra i due partiti tradizionali con un nuovo regime chiaramente ispirato al modello peronista. Ma liberali e conservatori allora raggiunsero una storica riappacificazione e rovesciarono Rojas Pinilla, stabilendo quel regime del Fronte Nazionale che tra 1958 e 1978 occupò tutto il potere.

Proprio la riduzione degli spazi di opposizione favorì la nascita di varie guerriglie, in un’epoca in cui tutta l’America Latina era impressionata dall’esempio della Rivoluzione Cubana. In più, c’erano quei guerriglieri liberali irriducibili che nel clima di odio generato dalla Violencia non accettarono la riappacificazione con i conservatori; in alcuni casi si trasformarono in semplici banditi, in altri si radicalizzarono e si collegarono al Partito Comunista. La data del 30 maggio del 1964 è appunto quella in cui un gruppo di questi ex-liberali, guidato da Pedro Antonio Marín alias Manuel Marulanda Vélez alias Tirofijo, costituì formalmente il primo “fronte” di quelle che in breve sarebbero diventate note come Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia: le Farc.

Come detto, le Farc non furono l'unico movimento armato colombiano. Accanto a esse sorsero infatti l’Esercito di liberazione nazionale (Eln, castrista); l’Esercito popolare di liberazione (Epl, maoista); il Partito rivoluzionario dei lavoratori (Prt, trotskista); il Quintín Lame (indigenista). Poi, negli anni ’70, nacque l’M-19: un gruppo di nostalgici di Rojas Pinilla ma alimentato da un tipo di sensibilità da sinistra post-marxista che, salvo l’uso della lotta armata, può essere considerata abbastanza simile a quella che nell’Italia dell’epoca fu incarnata dal Partito radicale e che in Germania avrebbe portato alla nascita dei Verdi. Questa seconda guerra, a partire dal 1964, in 48 anni ha fatto altri 120 mila morti.

Ci sono stati quattro tentativi di arrivare alla pace. Il primo, nel 1984, con le Farc, che accettarono di entrare nel gioco politico democratico attraverso la piattaforma della Unione Patriottica. Ma ben 5 mila suoi militanti negli anni successivi furono sterminati da elementi di destra contrari alla pace, e comunque le Farc non avevano effettivamente smobilitato. Il secondo fu nel 1991 e portò all’elezione di un’Assemblea Costituente che fece la Costituzione tuttora esistente. M-19, Epl, Prt e Quintín Lame si trasformarono in partiti politici legali - l’M-19 ebbe perfino un ministro - ma Farc e Eln continuarono a combattere, a volte anche tra di loro.

Nel 1993 fu ucciso il capo del cartello di Medellín, Pablo Escobar. Nel 1994 fu eletto presidente il liberale Ernesto Samper, di cui quasi subito saltò fuori che per la campagna elettorale aveva preso soldi dal cartello di Cali. Le Farc riuscirono a inserirsi nell’economia della droga al posto dei cartelli smantellati e approfittarono anche della riduzione degli aiuti Usa alla Colombia come sanzione contro Samper; passarono decisamente all’offensiva, accerchiando in pratica le grandi città e cercando una vittoria militare. Eletto nel 1998 su una piattaforma di dialogo con la guerriglia, il conservatore Andrés Pastrana impostò il terzo processo di pace. Concesse alle Farc una “zona di ripiegamento” in Amazzonia grande più della Svizzera, e vi si recò a stringere le mani a Tirofijo, venendo salutato da un picchetto d’onore dei guerriglieri.

Anche la Cia aveva dato il suo benestare, ma il 25 febbraio 1999 tre indigenisti statunitensi che si erano recati in Colombia per assistere l’etnia indigena u’wa nella sua lotta contro la multinazionale petrolifera Occidental vennero assassinati da un commando delle Farc, secondo le quali la loro cittadinanza Usa li rendeva “nemici” al di là dell'impegno contro le multinazionali. Si trattava di Terence Fleitas, di 24 anni; Ingrid Washinawatok, di 41; e Larry Gay Lahe’na’e, di 39. Erano membri di Pacific Cultural Conservancy International, un’organizzazione che lotta per “la salvaguardia delle 1400 etnie indigene che vivono distribuite sulle due coste del Pacifico” e per la tutela dell’habitat naturale di questi popoli. Freitas era un biologo, ricercatore presso l’Università di Santa Cruz e esperto in fiori selvatici; Ingrid Washinawatok, ecologista e indigenista, era un’indiana, appartenente alla tribù dei menomee del Winsconsin e presidente dell’associazione che raccoglie gli indiani residenti a New York; Larry Gay Lahe’na’e, a sua volta, era una leader polinesiana delle Hawaii. Quando il 5 marzo i cadaveri dei tre furono ritrovati oltre il confine del Venezuela e le autorità colombiane diedero subito la colpa alle Farc, non mancò in principio qualche dubbio: Freitas aveva fatto sapere a un’amica di essere seguito da gente della Occidental Petroleum, la polizia aveva trattato i tre con malcelato fastidio. Ma furono le stesse Farc ad ammettere tranquillamente la responsabilità del loro assassinio. “Chi ha dato l’ordine di ucciderli ha agito però di testa sua, senza consultarsi con la direzione nazionale del movimento”, si giustificarono.

Dal momento che le Farc, pur chiedendo scusa, si rifiutarono di consegnare i responsabili, il risultato fu la rottura con gli Usa. Di lì a poco, anche il processo col governo colombiano deragliò. Gran parte dell’opinione pubblica era indignata per il modo in cui le Farc continuavano con le loro operazioni militari e i loro sequestri, usando per giunta la “zona di ripiegamento”. Va però riconosciuto che a loro volta erano attaccate da gruppi paramilitari di estrema destra di cui erano noti i legami con i militari, e che comunque le stesse Forze Armate colombiane continuavano ad agire. Uscendo dalle polemiche sugli eventi, è evidente che né il governo colombiano né il comando delle Farc erano effettivamente in grado di imporre una tregua a tutti i combattenti in campo. Dopo che lo stesso Pastrana si era riconvertito a una strategia militare, nel 2002 il liberale dissidente Álvaro Uribe Vélez fu eletto con una piattaforma basata sulla linea dura; mantenne per otto anni un’alta popolarità anche grazie ai duri colpi inflitti alle Farc. Quando fu eletto, le Farc avevano 24 mila combattenti e controllavano metà del paese, anche se quella spopolata.

Quando passò la mano al suo delfino Juan Manuel Santos, ex-ministro della Difesa, erano ridotte a 7-8 mila uomini e costrette negli angoli più inaccessibili; i loro leader più noti erano stati uccisi. Nel contempo, il clima di maggior fiducia ha consentito alla Colombia una spettacolare crescita economica, che secondo le previsioni dovrebbe permetterle di sorpassare a fine 2012 l’Argentina come terza economia latino-americana (previsto un pil di 362 miliardi di dollari contro i 342 di Buenos Aires). Il limite di Uribe era però di aver impostato la lotta alle Farc su un asse di ferro con gli Usa che gli hanno sì garantito 6 miliardi di dollari di aiuti, ma lo hanno anche esposto a un grave rischio di isolamento rispetto a un’America Latina che intanto virava decisamente a sinistra. La sorprendente svolta di Santos, appena eletto, è stata appunto la normalizzazione dei rapporti con il presidente venezuelano Chávez, anche al costo di rompere con Uribe. In cambio della rinuncia di Santos a dare agli Usa la base offerta da Uribe, Chávez è passato dall’appoggio alle Farc - dichiarato dal punto di vista politico ma secondo varie indiscrezioni importante anche dal punto di vista militare, ancorché sotto banco - a un’apparente collaborazione contro di loro, al punto da estradare in Colombia alcuni loro leader.

Uribe ha ribadito più volte che le Farc comunque continuano ad avere nel Venezuela un comodo santuario, ed è evidente che i rapporti tra Chávez e guerriglieri non si sono mai interrotti. Sebbene nei primi periodi dell’amministrazione Santos la riduzione dell’appoggio venezuelano abbia favorito nuove sconfitte delle Farc, negli ultimi mesi i guerriglieri sono clamorosamente tornati all’offensiva. Liberati in modo unilaterale gli ultimi militari loro prigionieri, hanno infatti ristrutturato organizzazione e tattiche, iniziando anche ad aggiornare il modo di finanziamento: dal narcotraffico all’estrazione illegale di oro e alla richiesta di tangenti alle società petrolifere. Piuttosto che recuperare una possibilità di vittoria sul campo, però, hanno raggiunto semplicemente una posizione di stallo.

Juan Manuel Santos è stato il ministro della Difesa di Uribe. Rodrigo Londoño Echeverri “Timochenko”, ex-responsabile dell’intelligence proiettato alla testa delle Farc dall’uccisione di Alfonso Cano, a sua volta comandante del movimento dopo la morte di Tirofijo, è un personaggio particolarmente radicale, con studi a Mosca e a Cuba. Proprio questo stallo li ha però costretti a scegliere il dialogo. È stato proprio a Barinas, capoluogo dello Stato venezuelano dove è nato Chávez, il primo contatto. Tra febbraio e agosto altri 10 incontri ci sono stati a Cuba, finché il 27 agosto non è stata annunciata la firma di un accordo preliminare in sei punti, cui sono seguite altre comunicazioni. Santos, in particolare, è ricorso a una metafora sportiva, parlando del processo in corso durante la presentazione di sei nuovi ministri nominati in un rimpasto. “Una squadra per giocare un secondo tempo della partita, un secondo tempo pieno di sfide”.

Timochenko l’ha invece buttata in musica, esibendosi in un ironico rap registrato nella giungla e trasmesso via Internet. “Me ne vado all’Avana, questa volta a conversar/ il borghese che ci cercava non ci ha potuto sconfiggere”, dicono i versi, parafrasando una nota canzone. “Il pedante Chucky Santos si è visto nella necessità/ di chiedere a Fidel Castro/che lo aiuti con le Farc”. “La Norvegia è venuta dall’Europa/ e Chávez dal Venezuela con la sua nave vento in poppa/ a vedere se la pace risuona”. Dopo il primo incontro di Oslo del 5 ottobre la trattativa si sposterà in effetti all’Avana: Norvegia e Cuba “garanti”; Cile e Venezuela “accompagnanti”.

Il 7 ottobre però ci sono le elezioni presidenziali in Venezuela. Uribe ha subito detto che non si può trattare la pace mentre le parti continuano a combattersi e che non bisognava far entrare Cuba e Venezuela; secondo lui inoltre il negoziato è anche un gigantesco spot per favorire la rielezione di Chávez.

Infine, merita raccontare la storia di Noé Suárez Rojas “Grannobles”, già comandante dei Fronti 10 e 30 del movimento armato. Personaggio notoriamente squilibrato, era stato il responsabile nel 1999 dell’uccisione dei tre indigenisti; suo fratello era Víctor Julio Suárez Rojas, alias Jorge Briceño Suárez “Mono Jojoy”, il sanguinario cervello militare delle Farc, che l’aveva sempre protetto. Il 22 settembre del 2010 “Mono Jojoy” è stato però ucciso in un bombardamento aereo, nella cosiddetta “Operazione Sodoma”. Rapidamente emarginato, sembra che Grannobles si fosse ritirato in territorio venezuelano, dedicandosi a traffico di droga, sbornie e orge con donnine. Fino a quando non si è rifiutato di obbedire all'ordine di rientrare in territorio colombiano “a combattere”.

Per questo, a quanto è trapelato, a gennaio le stesse Farc lo hanno fucilato. Motivazione ufficiale: “disobbedienza”. Oppure si è voluto dare un segnale, punendo colui che era stato indicato come responsabile del deragliamento del negoziato di Pastrana? Gennaio è subito prima dell’inizio del negoziato segreto…


di Maurizo Stefanini
6 settembre 2012

Nessun commento:

Posta un commento