fonte: www.eurasia-rivista.org
di Yves Lacoste, 17 luglio 2007
Per decenni siamo stati abituati a un certo modo di
vedere il mondo, più classico e più radicato, che privilegia l’economia
in quanto scienza. Coloro che vi aderiscono, siano essi adepti del
liberalismo o di tendenza marxista, assicurano che tutti i problemi
della società, comprese le rivalità politiche, derivano da rivalità
economiche – che si tratti di concorrenza fra le imprese o di
contraddizioni fra le classi sociali. Eppure, mentre gli economisti
spiegano, non senza ragione, che la mondializzazione dell’economia
avanza e che anzi essa è stata completata in seguito alla fine della
guerra fredda, come è possibile che i conflitti geopolitici diventino
sempre più numerosi (e certo questa non è una illusione mediatica)?
Così in Europa, dopo la caduta della cortina di ferro, nel 1989, sono
spuntati una dozzina di nuovi Stati, portatori di rivendicazioni
territoriali. Fra metà di essi, in particolare nella ex Jugoslavia, è
attualmente in corso una guerra. Ora, le cause di questi conflitti
derivano in maniera solo molto indiretta dall’economia: gli avversari
non combattono per il possesso di ricchezze ma soprattutto per delle
ragioni nazionali, ciascuno essendo impegnato a liberare il suo
«territorio storico», mentre una parte dei suoi cittadini si trova a
vivere in terre annesse da nazioni rivali.
Non vogliamo negare l’importanza dei problemi economici, né
pretendere che la geopolitica, questo nuovo modo di vedere il mondo,
risponda a ogni domanda. Si tratta solo di formulare i problemi in modo
differente e complementare. Ma noi non siamo ancora abituati alla
complessità e alla diversità dei problemi geopolitici.
Si è a lungo pensato, in effetti, che delle cause molto generali –
rivalità economiche, relazioni di produzione e di scambio tra gli uomini
– condizionassero i comportamenti politici, la volontà di potenza dei
dirigenti e persino, indirettamente, il patriottismo dei cittadini.
Oggi che la mondializzazione dell’economia è, a quanto pare, acquisita,
si è costretti a constatare che l’atteggiamento degli Stati può essere
guidato da altri fattori, al di là della ricerca del profitto o della
conquista di terre fertili. Se c’è sempre la tentazione di cercare di
impadronirsi di grandi giacimenti di petrolio come quelli del Kuwait,
pure questo esempio spettacolare di rivalità economica come fattore di
guerra è abbastanza eccezionale.
Nella maggior parte dei casi, oggi, le nazioni combattono o si
preparano a combattere per altri valori. Certo, per alcuni decenni, si
affrontarono due ideologie, due concezioni della società, che
mascheravano a fatica le loro rivalità economiche; il capitalismo, che
diceva di essere il mondo libero, e il comunismo, epressione
dell’eguaglianza. In quel caso si trattava ancora di cause molto
generali, su scala planetaria. Non appena questa rivalità si è spenta,
ecco sorgere in Europa (e in altre parti del mondo) una serie di
conflitti nei quali la posta in gioco non è più la terra, come poteva
essere un tempo, e nemmeno una morale per l’umanità, come ancora poco
fa, ma parti di territorio molto precise, rivendicate per ragioni
intricatissime: territori storici, territori-simbolo disputati fra
nazioni rivali. Analoghe rivalità cominciano ad apparire, in modo meno
drammatico, in seno a grandi Stati nazionali europei.
E’ di questo che si tratta quando si parla di problemi geopolitici.
La funzione di questo saggio è appunto di analizzarli, di cercare una
chiave per rispondere a domande così nuove.
Per capire un problema geopolitico, sia pure a grandi linee, non basta
più evocare delle cause generali, il conflitto «Est-Ovest», come prima;
occorrono un certo numero di informazioni relativamente precise e
obiettive. Ecco che ci si scontra con nuove difficoltà: più che
l’insufficienza della documentazione disponibile, sono la cattiva
conoscenza delle concezioni antagoniste, i timori reciproci inconfessati
e soprattutto l’ignoranza di coloro che, certi del loro buon diritto,
non sanno o non ammettono che possa esistere un’opinione contraria alla
loro, anch’essa in buona fede.
Bisogna certo condannare i fanatismi d’ogni genere, le cui
conseguenze risultano essere, prima o poi, catastrofiche. Ma non occorre
forse considerare che tutti questi antagonismi di idee e di argomenti
sono, ahimé, normali, quando si tratta di geopolitica? Terribile
interrogativo filosofico, quando questi antagonismi sono esasperati al
massimo, giacché insorge allora il problema della guerra e quello delle
frontiere. La geopolitica è una serie di drammi (senso primo del
termine: azione) e persino di tragedie – non bisogna mai dimenticarlo.
Ma «le cose stanno come stanno e il mondo essendo come è», per
riprendere l’epressione del generale de Gaulle, bisogna ben accettare
che questi antagonismi sono la norma. Ciò non significa che oggi le
guerre siano normali e che non possano essere evitate. è d’altronde la
pacificazione uno dei compiti dell’analisi geopolitica.
Nei molteplici casi in cui oggi si usa il termine geopolitica, si
tratta in effetti di rivalità di potere su dei territori e sugli uomini
che vi abitano. In questi scontri tra forze politiche, ognuna di esse
usa mezzi diversi, e in particolare argomenti che dimostrino le ragioni
per cui l’una parte o l’altra vuole conquistare o conservare il tal
territorio, e anche dunque, all’inverso, che le pretese dei rivali sono
illegittime.
Situazioni e idee geopolitiche
Quale che sia la sua estensione territoriale (planetaria, continentale,
statale, regionale, locale) e la complessità dei da ti geografici
(rilievo, clima, vegetazione, ripartizione della popolazione e delle
attività…), una situazione geopolitica si definisce, a un dato momento
di urta evoluzione storica, attraverso delle rivalità di potere di
maggiore o minor momento, e attraverso dei rapporti tra forze che
occupano parti diverse del territorio in questione.
Le rivalità di potere sono anzitutto quelle tra Stati, grandi e piccoli,
che si disputano il possesso o il controllo di certi territori. Si
tratta di individuarne la localizzazione precisa e le ragioni che
ciascuno invoca per giustificare il conflitto, spesso legate alle
risorse (appropriazione di un giacimento minerario o di una zona
sottomarina non ancora esplorata, eccetera), ma talvolta anche a cause
di più difficile discernimento, e che occorre nondimeno cercare di
definire.
Rivalità di potere, ufficiali e ufficiose, si sviluppano anche
all’interno di numerosi Stati i cui popoli, più o meno minoritari,
rivendicano la propria autonomia o indipendenza. Emergono poi i problemi
dell’immigrazione, che in molti paesi sono divenuti geopolitici.
Infine, in seno a una stessa nazione, esistono rivalità geopolitiche tra
i principali partiti politici, che cercano di estendere la propria
influenza nella tal regione o nel tale agglomerato, e di conquistare o
conservare delle circoscrizioni elettorali.
Per mostrare la ripartizione di queste forze diverse, anche negli spazi
relativamente ristretti, occorrono delle carte chiare e suggestive, e in
particolare delle carte storiche, che permettano di capire l’evoluzione
della situazione (attraverso i successivi tracciati delle frontiere),
come pure di apprezzare «diritti storici» su un determinato territorio,
di cui si dotano contraddittoriamente diversi Stati.
Per capire un conflitto o una rivalità geopolitica, non basta precisare e
cartografare le poste in gioco, bisogna anche cercare, lo si è visto –
soprattutto quando le cause sono complesse – di comprendere le ragioni,
le idee dei suoi principali attori: capi di Stato, leader di movimenti
regionalisti, autonomisti o indipendentisti, eccetera. Ciascuno di essi
esprime e influenza a un tempo lo stato d’animo della parte di opinione
pubblica che rappresenta. Il ruolo delle idee -anche se sbagliate – è
capitale in geopolitica. Sono esse a spiegare i progetti e a determinare
la scelta delle strategie, certo insieme ai dati materiali. Queste idee
geopolitiche le chiamiamo rappresentazioni. Se questo termine sarà qui
impiegato a profusione è perché a causa dei suoi significati originari e
della sua ricchezza di senso, corrisponde molto bene a due
caratteristiche fondamentali delle idee geopolitiche.
Da un lato, rappresentare (rendere presente), «mostrare in modo
concreto» (definizione del Robert), è anzitutto disegnare. Ora, le idee
geopolitiche si riferiscono a dei territori, cioè alle carte che ne sono
le rappresentazioni, allo stesso modo in cui un quadro rappresenta un
personaggio. D’altro lato, la rappresentazione è l’atto teatrale per
eccellenza, l’atto che rende simbolicamente presenti personaggi e
situazioni drammatiche, ciò che è anche proprio delle idee geopolitiche.
Può essere che questo senso di «tenere il posto di qualcuno» di «agire
in suo nome», sia all’origine dell’uso diplomatico e politico della
«teoria della rappresentazione», secondo cui la sovranità di una nazione
si esprime attraverso i suoi rappresentanti.
In fondo, questo senso oggi non è il più importante nelle
rappresentazioni geopolitiche. è spesso il senso cartografico a
dominare. Ma non per questo bisogna minimizzare la rappresentazione in
senso teatrale, giacché la maggior parte dei conflitti geopolitici sono
pensati in termini di dramma. Ciascuna delle nazioni implicate assume
simbolicamente i tratti di un personaggio («la Francia», «la Germania»,
eccetera). La rappresentazione storica dei loro rapporti, il modo di
raccontare le cause dei loro conflitti assumono i contorni della
tragedia. Ecco perché il termine di rappresentazione è, nelle analisi
geopolitiche particolarmente utile in ciò che possiede di ambiguo e di
semanticamente ricco.
Per giustificare le proprie rivendicazioni e i propri diritti su dei
territori, o per concepire le proprie strategie, i protagonisti (i capi
di Stato e i loro consiglieri), tenuto conto delle loro rappresentazioni
geopolitiche personali e collettive, si riferiscono a diversi tipi di
argomentazione o di ragionamenti che appartengono all’arsenale delle
teorie geopolitiche.
Ci sono in effetti diversi modi di concepire la geopolitica, e lo stesso
termine è stato oggetto di accentuazioni alquanto differenti. Non è
nello spirito di questo saggio di escludere idee che oggi appaiono
superate o pericolose, giacché alcuni continuano a riferirvisi. è invece
necessario di inventariarle, spiegarle a rischio di criticarle – e
discernere le loro origini storiche e il loro ruolo nelle lotte e nelle
controversie attualmente in corso nel mondo.
Per trattare di tutto ciò in modo razionale e metodico, occorre una
concezione d’insieme come pure un approccio scientifico, che aiuti a
meglio capire gli avvenimenti attuali e quelli che si annunciano.
Una concezione nuova e globale della geopolitica
Ciò che abbiamo appena affermato, all’inizio di questo preambolo, è già
molto diverso rispetto ai differenti modi più o meno parziali e di parte
in cui abitualmente si tratta di geopolitica. Ma bisogna spingersi più
avanti ed esporre i fondamenti di una concezione nuova e globale della
geopolitica.
Questa concezione non deriva unicamente da una evoluzione personale,
essa è il compimento di un’evoluzione storica complessa e relativamente
lunga delle società europee occidentali. è in particolare la conseguenza
dei nuovi fattori politici e culturali del nostro tempo: progresso
della libertà di stampa e della libertà di espressione in una notevole
parte del mondo d’oggi. In effetti, questa concezione nuova e operativa
della geopolitica prende in considerazione il ruolo sempre più
importante dei media, che diventano dei fattori geopolitici in tanto in
quanto, influenzando l’opinione pubblica, modificano i punti di vista e
le decisioni dei dirigenti.
Opponendosi in questo alle diverse concezioni che esamineremo in
seguito, questa idea della geopolitica non procede da una definizione
generale a priori. Al contrario, essa è stata definita dopo aver
analizzato e distinto le caratteristiche comuni alle differenti qualità
di fenomeni e di problemi che sono oggi considerati come geopolitici. è
il risultato di ormai vent’anni di ricerche condotte dall’équipe che
anima la rivista Hérodote, e che ha esaminato giorno dopo giorno,
talvolta sul campo, le cause e lo svolgimento di molteplici tensioni e
conflitti, come pure le reazioni dell’opinione nazionale e
internazionale. Queste ricerche hanno anche progressivamente permesso di
capire perché il termine «geopolitica», apparso all’inizio del XX
secolo, non è più stato utilizzato dopo la fine della seconda guerra
mondiale, e perché è così diffuso oggi.
La comparsa in Europa, dopo la fine della guerra fredda, di un gran
numero di conflitti geopolitici gravi, e il fatto che da una decina
d’anni il termine -geopolitica sia sempre più utilizzato per designare
delle tensioni finora latenti – e che oggi si aggravano o suscitano,
grazie alla stampa, l’interesse e l’emozione dell’opinione pubblica –
inducono a pensare che stia accadendo qualcosa di nuovo. Quanto meno, si
accentuano oggi dei fenomeni che erano meno chiaramente percepiti nel
passato, o che non potevano manifestarsi in modo così evidente fino a
pochi anni fa.
Sicché per aprire il gioco potremmo affermare (poi lo dovremo
dimostrare) che il termine «geopolitica» non è tanto un nuovo modo di
definire delle rivalità territoriali come ne esistono da secoli, ma che
l’apparizione e l’allargamento degli usi di questo termine significano
che, da qualche tempo, dei nuovi fattori moltiplicano i differenti
generi di rivalità tra poteri relativi ai territori, e che esse si
svolgono in modo diverso dal passato, non fosse che per il ruolo
crescente dell’opinione pubblica. è ciò che noi verificheremo
paragonando al passato il modo in cui appaiono e si sviluppano gli
attuali conflitti.
Seconda affermazione, che scaturisce dalla prima: i fenomeni
specificamente geopolitici non corrispondono a non si sa quali rivalità
tra poteri per il controllo di territori ma – ecco la novità – a delle
rivalità le cui rappresentazioni più o meno antagonistiche sono ormai
largamente diffuse dai media. Ciò suscita discussioni fra i cittadini,
certo alla condizione che vi sia libertà d’espressione nei paesi
interessati. Così caratterizzati, si tratta dunque di fenomeni di un
tipo storico nuovo, le cui conseguenze modificano sensibilmente le
relazioni internazionali e l’esercizio dell’autorità dello Stato in vari
paesi.
La dimostrazione di questa duplice affermazione necessiterà di
percorrere un ceno numero di tappe di osservazione e di ragionamento. In
effetti, le cose sono tutt’altro che semplici, e bisognerà tener conto e
risolvere un certo numero di contraddizioni per costruire
progressivamente la definizione di un concetto di geopolitica, e per
misurarne il significato storico, culturale e politico.
Per capire a cosa corrisponda ciò che oggi chiamiamo geopolitica, è
dunque necessario (ma non sufficiente) spiegare come e perché questo
modo di vedere il mondo sia apparso, si sia poi sviato, per essere in
seguito occultato, prima di riapparire recentemente, dotato di una
portata e di un’ampiezza nuove e tanto maggiori quanto più i problemi
detti geopolitici si moltiplicano ormai sulla superficie del globo. è
per capire questo fenomeno che noi riflettiamo sul senso che dobbiamo
dare alla geopolitica affinché essa non sia solo una parola «alla moda»
per definire certi problemi, ma uno strumento per avviare un’indagine
scientifica efficace.
Se anche occorre fare la storia, in verità abbastanza sorprendente,
della parola geopolitica, dei suoi usi trascorsi o della maniera in cui è
stata passata sotto silenzio, tuttavia noi partiremo dal presente.
Tracceremo un quadro rapido dei diversi modi in cui questo termine è
oggi adoperato, delle differenti qualità di problemi che oggi esso
contribuisce a designare. In seguito, risaliremo al passato per meglio
capire la situazione attuale. In ciò noi seguiremo l’approccio
geopolitico che ci è proprio.
Il recente successo di un termine contestato
Il termine «geopolitica», a partire dagli anni Ottanta, e soprattutto
dopo la fine della guerra fredda, conosce un crescente successo,
praticamente in tutti i paesi. E soprattutto nei media, quando i
giornalisti cercano di spiegare questa o quella rivalità territoriale –
rivalità che vanno moltiplicandosi, specialmente in Europa – e di
rendere conto delle reazioni dell’opinione pubblica nel mondo. Compito
più difficile di quanto non appaia, almeno se lo si vuole affrontare
seriamente (malgrado i tempi stretti di cui dispongono i giornalisti),
analizzando onestamente gli argomenti e le rappresentazioni
contraddittorie delle diverse forze politiche in contrasto, si tratti di
Stati o di popoli, o che si manifestano in seno a una stessa nazione.
Compito sempre più difficile, in ragione di un’attualità sempre più
appesantita dal fatto abbastanza sorprendente per cui, malgrado la fine
dell’antagonismo fra le maggiori potenze, numerose questioni, fino a
ieri latenti o minime o di cui non si parlava affatto, si sono
bruscamente aggravate negli ultimi anni – e ciò in contrade europee
relativamente vicine.
Ma la geopolitica non è solo affare dei giornalisti. Giacché la
maggior parte delle rappresentazioni geopolitiche è associata in modo
più o meno evidente a delle idee e a dei principi, un gran numero di
intellettuali, specialmente brillanti filosofi, se ne preoccupano. Essi
dissertano sul ruolo e sui valori dell’Europa e si indignano a giusto
titolo a causa del dramma che si svolge nei Balcani, problema a tal
punto geopolitico che certi pensatori arrivano quasi a darne la colpa
alla Geopolitica, come se si trattasse di una qualche divinità malefica.
Essendo questo termine nuovo, mal definito e molto utilizzato dai
giornalisti, negli ambienti universitari e in particolare in quello
delle scienze sociali, non lo si adopera ancora che con cautela. Invece,
per un certo numero di specialisti di relazioni internazionali, per
degli storici e soprattutto per certi geografi la geopolitica designa un
nuovo campo di ricerca, in cui oggi c’è molto da fare, e un approccio
scientifico nuovo.
Tuttavia, la difficoltà per questi ricercatori è che il termine
geopolitica non è chiaramente definito ed è interpretato secondo
accezioni molto diverse. Da un lato, questa è una conseguenza del suo
successo, ma ciò deriva anche dalla diversità dei casi che oggi si
ritiene utile definire geopolitici, meno per una moda che perché questo
riferimento è ritenuto illuminante, pur essendo oggetto di giudizi di
valore estremamente contraddittori.
Il recente successo di questo termine è tanto più da sottolineare in
quanto alla fine della seconda guerra mondiale esso è stato quasi
proscritto in un gran numero di paesi (la maggior parte dei paesi
«occidentali» e soprattutto quelli comunitari), con il pretesto che si
trattava di un concetto «hitleriano». Eppure, dopo il 1945, i problemi e
i rivolgimenti che oggi chiameremo senza dubbio geopolitici non sono
mancati, a cominciare dagli accordi di Jalta. Ma la quasi totalità di
coloro che, nella maggior parte dei paesi, parlano oggi di geopolitica,
non hanno certo nulla a che vedere con l’ideologia nazista, e anzi
spesso ignorano le origini di questo termine e il fatto che esso sia
stato oggetto di una sorta di tabù.
Ciò spiega le controversie a proposito di questa parola. Per alcuni –
d’altra parte sempre meno numerosi (ma non si tratta solo di persone di
una certa età, che sarebbero state particolarmente vittime del nazismo)
– la geopolitica è una pseudoscienza e persino un approccio
intellettuale criminale, giacché – dicono costoro – essa è
indissociabile dall’imperialismo e financo dalle avventure più
spaventose dei regimi totalitari. Per altri, al contrario, si tratta di
una scienza nuova, oppure almeno di un modo nuovo di vedere il mondo e
di porre i problemi che fino ad ora erano stati occultati dallo schermo
delle ideologie. Tra questi due atteggiamenti estremi, le accezioni o le
definizioni della geopolitica coprono una gamma più o meno larga di
problemi che sono legati a diverse categorie di fenomeni politici come a
porzioni più o meno vaste di spazio terrestre.
La storia di questo termine non è dunque semplice, non più della sua
sfera semantica, che tende ad allargarsi; oggi si parla di geopolitica a
proposito della moltiplicazione – non fosse che in Europa o in paesi
vicini – di problemi tanto diversi quanto la comparsa di nuovi Stati, il
tracciato delle loro frontiere, i loro conflitti territoriali,
l’espansione di certe ideologie politiche e religiose come l’islamismo, o
le rivendicazioni dei popoli che vogliono essere indipendenti; ma si
parla anche di geopolitica, e sempre più da qualche anno, a proposito di
problemi politici interni a un medesimo Stato, delle rivendicazioni
regionalistiche, della geografia dei risultati elettorali, del
ritagliare o raggruppare le circoscrizioni amministrative, o delle
questioni di gestione del territorio. Si è tentati di considerare che si
tratti di un fenomeno alla moda. Nondimeno, resta che le rivendicazioni
di autonomia o di indipendenza formulate da modesti gruppi etnici o da
piccole «minoranze culturali» pongono oggi, in numerosi Stati, delicati
problemi politici, quando ancora qualche anno fa esse sarebbero state
soffocate, se non regolate, con la forza.
Questioni teoriche e semantiche
È ora necessario affrontare alcuni problemi teorici che sono, in verità,
molto importanti, anche se il più delle volte ad essi non si presta
attenzione: si riferiscono ai rapporti abbastanza sorprendenti tra
questo significante – «geopolitica» – e tutta una gamma di significati.
Nelle diversissime accezioni già evocate, si tratta pur sempre di
rivalità tra differenti tipi di poteri su territori più o meno vasti.
Constatare questa territorialità della «geopolitica» conferma il
riferimento alla geografia, ciò che l’abbreviazione iniziale indica in
modo quasi evidente.
Ora, tali conflitti territoriali fra gli Stati esistono da secoli e da
altrettanto tempo le frontiere sono state tracciate e poi modificate;
tutto ciò veniva riferito alla storia e non si parlava di geopolitica né
di un termine equivalente. Perché si è dovuto attendere l’inizio del XX
secolo affinché questo termine apparisse, ed essenzialmente, a quel
tempo, in un solo Stato, la Germania? E perché dobbiamo attendere la
fine del secolo perché improvvisamente l’uso di questa parola si
generalizzi e diventi un’idea-forza? Che cosa porta essa di nuovo in
rapporto alla storia, cioè a quello che scrivono gli storici?
Finiremo per definire retrospettivamente «geopolitici» tutti i conflitti
territoriali di una volta, come fa qualcuno? Il problema è meno
semplice di quanto non appaia, non fosse che per la proscrizione del
termine «geopolitica» dopo la seconda guerra mondiale. Per quasi
quarant’anni questa parola non è stata più usata (nemmeno come
aggettivo), né nei media né nelle università, quando tutta una serie di
fenomeni (la divisione dell’Europa e del mondo in due blocchi e le
rivalità delle due «superpotenze») si riferivano palesemente a quella
che noi oggi definiamo correntemente geopolitica. Il rapporto
signficante-significato non è dunque affatto semplice, non più di quanto
sono chiare le cause di questo tabù, né le ragioni per cui esso è stato
progressivamente superato nel corso degli anni Ottanta.
Per definire a posteriori alcuni tipi di problemi è sufficiente notare
che il termine «geopolitica» è relativamente recente e impiegarlo
semplicemente come una novità o come una comodità linguistica? Gli
specialisti che hanno riferimento hanno un modo nuovo di inquadrare e di
spiegare le rivalità territoriali di un tempo e quelle di oggi? La sua
apparizione all’inizio del secolo e la sua riapparizione – inizialmente
timida, verso il 1980, e poi clamorosa dopo la frantumazione dei regimi
comunisti e dell’Unione Sovietica – sono solo il riflesso
dell’evoluzione delle idee negli ambienti intellettuali o universitari? O
non anche la conseguenza di cambiamenti politici importanti nell’ambito
di numerosi Stati? Tutto dipende da che cosa si intende con
geopolitica.
Il termine, nelle sue molteplici accezioni attuali, è usato il più delle
volte come aggettivo. Curiosamente, i dizionari nemmeno lo citano in
quanto aggettivo e lo prendono in considerazione solo come sostantivo,
ma senza indicare i tre significati differenti di questa parola. Il
primo significato è quello dato dai grandi dizionari, il Larousse e il
Robert, dove il termine non figura d’altronde che in modo furtivo: la
geopolitica vi è considerata solo come una scienza o una particolare
materia di studio. Il secondo, sempre più frequente per quanto assente
nei dizionari potrebbe essere, trasponendo la definizione che il Robert
dà in secondo luogo della geografia: «La realtà oggetto di questa
scienza». Sarebbe d’altra parte preferibile dire «le realtà che sono
considerate essere oggetto di questa scienza» e che è dunque, per
conseguenza, legittimo definire geopolitiche.
Ora, che si tratti dei media o di ricerche degli specialisti queste
«realtà» sono prese in considerazione sia in quadri spaziali più o meno
vasti (per esempio, geopolitica dell’Africa, geopolitica di Beirut), sia
in funzione di certi attori politici che conducono o si ritiene
conducano un certo tipo di azioni che si definiscono anch’esse
geopolitiche. Siccome questi attori sono spesso assimilati a Stati, si
parlava per esempio correntemente, almeno fino al 1991, di geopolitica
dell’Unione Sovietica; in un tale caso, c’è confusione tra i dati i
problemi geopolitici considerati nel quadro di questo Stato, e le azioni
e i progetti attuati dai suoi dirigenti dentro o fuori le frontiere
statuali. Sicché si parla oggi correntemente della geopolitica americana
in questa o quella parte del mondo.
L’idea che la geopolitica è anche e soprattutto strategia è ancora
più evidente quando si evoca, per esempio, la geopolitica di Reagan o
quella di Gorbacev, cioè i differenti tipi di azione condotti, o più
precisamente decisi da questo o quell’attore politico per modificare una
situazione definita geopolitica. Siamo così arrivati al terzo senso del
termine geopolitica.
Negli scritti dei giornalisti come nei lavori di diversi specialisti è
chiaro che la geopolitica non è oggi considerata tanto come scienza o
conoscenza (non fosse che per le difficoltà di definirla) quanto come
azione, progetto e strategia. E questa evoluzione, lungi dall’essere una
deriva mediatica (checché ne pensi qualcuno), è assolutamente fondata,
perché in questo campo le analisi concrete si fondano su rivalità
territoriali tra poteri i cui attori e soprattutto i cui capi hanno
logicamente dei progetti e delle strategie. Questi dirigenti si servono
d’altronde delle informazioni geopolitiche fornite da diversi
specialisti per stabilire e modificare questi progetti e queste
strategie. Eppure, nei dizionari la geopolitica non è assolutamente
considerata come azione e strategia, ma definita solo come scienza o
disciplina di un genere particolare. Le definizioni dei dizionari sono
di fatto dello stesso tipo di quelle che essi danno della geografia.
Questo sostantivo ha anch’esso due significati troppo spesso confusi.
Secondo il Robert, è 1) «la scienza che ha per oggetto lo studio dei
fenomeni fisici biologici umani localizzati sulla superficie del globo
terrestre» e 2) «la realtà fisica, biologica, umana che è oggetto di
studio della scienza geografica». Ora, se il termine stesso di
«geografia» fa esplicito riferimento a una tecnica scientifica
(geo-grafia, disegnare, rappresentare la Terra, cioè anzitutto costruire
delle carte), non è questo il caso del termine geopolitica giacché, in
primo luogo, la politica non è definita nel Robert come scienza ma come
1) ciò che è «relativo alla città, al governo dello Stato» e 2) «arte e
pratica del governo delle società umane». Il terzo senso di
«geopolitica» – azione, progetto, strategia – è dunque semanticamente
legittimo. Queste considerazioni permettono di prendere coscienza di un
certo numero di ambiguità semantiche, ma non per questo definiscono che
cosa è la geopolitica. Coloro che – procedendo in modo inverso rispetto
al nostro – vogliono partire dai principi e non dalla realtà, così come
essa è percepibile, diranno che sono geopolitici i fenomeni che si
riferiscono alla geopolitica. Ma come l’hanno definita, fino ad oggi la
geopolitica?
Alcune definizioni correnti ma parziali e contraddittorie della geopolitica
Per il Robert (1965), la geopolitica è «lo studio dei rapporti tra i
dati naturali della geografia e la politica degli Stati». Il Grand
Larousse Universel (1962) è ancora più esplicito, giacché per esso la
geopolitica è «lo studio dei rapporti che uniscono gli Stati le loro
politiche e le leggi di natura, queste ultime determinando le altre».
È abbastanza curioso che questo genere di definizioni che non si
trovano solo nei dizionari ometta ogni riferimento alla storia, per
quanto l’invocazione dei «diritti storici» sia uno dei maggiori
argomenti in geopolitica. Ad ogni modo, simili definizioni avrebbero
dovuto essere respinte per la loro evidente illogicità, che rasenta
l’assurdità (ma certi geopolitici vi si riferiscono senza vergogna, per
le necessità della causa che essi sostengono). In effetti se «le leggi
di natura determinano la politica degli Stati», come spiegare che essi
possano operare cambiamenti spettacolari e durevoli della loro politica,
ciò che la storia permette di constatare, e non solo durante le
rivoluzioni? I «dati naturali della geografia» purtuttavia non cambiano
affatto, e «le leggi di natura» sono comunque eterne. Queste definizioni
quanto meno sommarie (due righe ciascuna) sono anteriori al successo
attuale della geopolitica, ma si continua spesso a farvi riferimento,
specialmente negli ambienti universitari.
Queste definizioni classiche, che si limitano a indicare l’esistenza
di rapporti tra la geopolitica e la geografia, ma senza specificare di
quali rapporti si tratti comportano inoltre il grande inconveniente di
ridurre quest’ultima ai soli fenomeni naturali – concezione assai
diffusa nell’opinione comune, ma che non ha alcuna giustificazione
epistemologica. Perché queste pretese definizioni della geopolitica non
fanno menzione dei rapporti tra la «politica degli Stati» e i dati
purtuttavia fondamentali della geografia umana, non fosse che, per
esempio, l’importanza della densità di popolazione in rapporto alla
superficie utilizzabile di uno Stato? Mistero, o forse questo
rischierebbe di richiamare la questione dello «spazio vitale» che Hitler
ha sviluppato nel Mein Kampf?
Il Grand Larousse Universel (1989) definisce la geopolitica come «una
scienza che studia i rapporti tra la geografia degli Stati e la loro
politica. (…) La geopolitica esprime la volontà di guidare l’azione dei
governi in funzione delle lezioni della geografia. (…)». La volontà di
chi? Si potrebbe credere che questo proposito rifletta le ambizioni dei
maestri della geografia accademica. Uno dei più celebri in questo campo
non fu forse il britannico sir Halford Mackinder (1861-1947) che acquisì
dopo il 1900, una grande notorietà nei circoli dirigenti anglosassoni?
Egli è spesso considerato uno dei più celebri geopolitici. Eppure, non
ha mai fatto esplicito riferimento alla geopolitica nei suoi scritti, e
il più celebre tra essi intorno a questo tema (The Geographical Pivot of
History), si inquadra piuttosto in quella che sarà poi definita
geostoria.
La corporazione dei geografi accademici in senso generale ma in modo
peculiare in Francia e oggi anche in Germania, è tuttavia,
paradossalmente, quella che, assai più delle altre, tuttora respinge la
geopolitica in nome della scienza e con il pretesto che si tratterebbe
di un residuo o di una rinascita del nazismo. Questa corporazione
disapprova coloro tra i suoi membri che se ne occupano e promuove invece
la pratica della geografia politica.
Ma questo settore della geografia accademica, malgrado l’importanza
riconosciuta del volume Politische Geographie nell’opera del grande
geografo tedesco Friedrich Ratzel (1844-1904), negli ultimi decenni era
stato completamente abbandonato, a parte un certo risveglio in questi
ultimi anni nell’intento di far concorrenza alla geopolitica. Al punto
che la geografia politica è dimenticata nel Dictionnaire de la
géographie diretto da Pierre George (1979), che indica come «la
geopolitica è lo studio dei rapporti tra i fattori geografici e le
azioni o le situazioni politiche», prima di menzionare che essa è stata
«uno degli strumenti di propaganda politica dei teorici dei Terzo
Reich».
Il più celebre di questi teorici l’animatore della prima corrente di
idee che facesse riferimento alla geopolitica per metterla in pratica,
il geografo e generale tedesco Karl Haushofer (1869-1946), dichiarava
verso il 1920, in modo al quanto lirico: «La geopolitica sarà e deve
essere la coscienza geografica dello Stato. Il suo oggetto è lo studio
delle grandi connessioni vitali dell’uomo d’oggi nello spazio d’oggi (…)
e la sua finalità (…) è il coordinamento dei fenomeni che legano lo
Stato allo spazio». In effetti, l’oggetto principale di questa corrente
geopolitica erano le relazioni territoriali degli Stati tra loro, il
tracciato delle loro frontiere, e in particolare quelle della Germania
che, in conseguenza del Trattato di Versailles (1919), aveva appena
perso importanti territori.
Gli specialisti di relazioni internazionali inquadrano la geopolitica
ancor più in funzione delle loro preoccupazioni. Dopo il 1945, quando
questo termine era completamente proscritto in Europa, all’Ovest come
all’Est, certi specialisti americani vi facevano talvolta riferimento in
lavori abbastanza riservati destinati a fornire ai dirigenti americani
una base teorica alla politica che gli Stati Uniti, a causa della guerra
fredda e della loro potenza, dovevano condurre su scala mondiale.
«L’essenza della geopolitica è di studiare la relazione che esiste tra
la politica internazionale di potenza e le caratteristiche
corrispondenti della geografia (e specialmente) quelle su cui si
sviluppano le fonti della potenza», scrive nel 1963 Saul Cohen in
Geography and Politics in a World Divided. Per Robert E. Harkavy, in
Great Power Competition for Overseas Bases: Geopolitics of Access
Diplomacy (1983), la geopolitica è «la rappresentazione cartografica
delle relazioni tra le potenze principali in contrapposizione fra loro».
Secondo la Encyclopedia Britannica la geopolitica è «l’utilizzazione
della geografia da parte dei governi che praticano una politica di
potenza», mentre William T. Fox, in un colloquio organizzato a Bruxelles
dalla Nato nel 1983, sostiene che in generale la geopolitica è
«l’applicazione delle conoscenze geografiche agli affari mondiali».
Identica la concezione del generale Pierre Gallois, autore di un’opera
intitolata Géopolitique: les voies de la puissance (1990): «La
geopolitica è lo studio delle relazioni che esistono tra la condotta di
una politica di potenza sviluppata sul piano internazionale e il quadro
geografico in cui essa si esercita».
Ma queste concezioni più o meno prossime, secondo cui la geopolitica è
essenzialmente analisi di tipo geografico delle relazioni interstatuali
sul piano planetario o su quello dei grandi spazi non tengono conto del
fatto che analisi geopolitiche dei rapporti di forza sono oggi condotte
riguardo a territori di dimensioni assai minori che si tratti di Beirut o
dei quartieri centrali di Los Angeles, ad esempio.
Alcuni specialisti di scienze sociali considerano che la geopolitica
tenga anche in conto numerosi problemi politici interni agli Stati
compresi quelli la cui unità nazionale è forte. Queste ricerche di
geopolitica interna, anch’esse orientate sullo studio delle rivalità
territoriali tra poteri – in particolare quelle tra i notabili della
politica – hanno mostrato la loro efficacia in materia di analisi dei
fenomeni elettorali e delle operazioni digestione del territorio. Già da
molti decenni in America Latina i gruppi dirigenti e soprattutto i
militari brasiliani argentini e cileni si riferiscono alla «geopolitica»
per condurre delle operazioni di gestione dei loro territori o di
organizzazione dello spazio.
Molto più complessa e recente è la «proposta di definizione» che Michel
Foucher, nel suo libro Fronts et Frontières (1991), dà della
geopolitica: essa è, secondo lui «un metodo globale di analisi
geografica di situazioni sociopolitiche concrete prese in esame in tanto
in quanto esse sono localizzate, e delle rappresentazioni abituali che
le descrivono». Ciò ha il vantaggio di potersi applicare a situazioni di
ogni dimensione, compreso il quadro di Stati di dimensioni
relativamente piccole, e di non ridurre la geopolitica ai rapporti tra
Stati o alle rivalità planetarie, come fa qualcuno. Ma l’espressione
«situazioni sociopolitiche concrete», se applicata ad altre questioni
oltre a quelle concernenti le frontiere, non indica che i fenomeni
geopolitici sono essenzialmente rivalità di potere riferite al
territorio; ciò risulta ancor più mascherato dal fatto che questa
definizione fa stato delle «rappresentazioni abituali» quando si tratta,
in tutte le situazioni geopolitiche, a fortiori nei problemi di
frontiere, di rappresentazioni contraddittorie.
Malgrado le loro differenze, tutti questi modi di inquadrare la
geopolitica, compreso l’ultimo, hanno in comune la caratteristica di non
rendere conto delle sue singolarità storiche: né spiegano l’apparizione
molto tardiva di questo termine all’inizio dei XX secolo, la sua
eclisse trentacinquennale, e soprattutto, da una decina d’anni la sua
utilizzazione sempre più frequente sulla stampa e da parte di diversi
specialisti meno per effetto di una moda che in ragione di un fenomeno
obiettivo: la moltiplicazione recente dei problemi dei conflitti gravi o
minori che vengono chiamati geopolitici. Insomma, nel mondo accade
qualcosa di nuovo.
Era successo qualcosa del genere quando per la prima volta, in un paese,
una corrente di opinione si è preoccupata della geopolitica?
L’apparizione della geopolitica
Perché è solo all’inizio dei XX secolo, nei 1918-1919, in Germania, che
la geopolitica appare come una novità intellettuale e politica e suscita
in quel paese una poderosa corrente intellettuale, quando i conflitti
territoriali fra Stati esistevano da secoli? Non bisogna mettere da
parte questo problema, che oggi può apparire ben superato. Ma cercare di
capire le cause di questa apparizione, così come quelle della
proscrizione del termine dopo il 1945, poi del suo riapparire dopo dieci
anni – cioè cercare di capire le grandi tappe della storia della
geopolitica – permette di afferrare meglio alcune delle caratteristiche
fondamentali della geopolitica e di avanzare nella costruzione della sua
definizione.
Non basta segnalare, come si fa la maggior parte delle volte, che la
parola «geopolitica» è comparsa, d’altronde in modo alquanto furtivo,
per la prima volta nel 1904, per la penna di un geografo svedese,
Rudolph Kjellen (1864-1922), fortemente influenzato dall’opera di
Friedrich Ratzel e legatissimo agli ambienti culturali tedeschi. Per lui
la geopolitica, allo stesso modo della ecopolitica e della demopolitica
da lui proposte, era uno dei percorsi di ricerca di cui sottolineava
l’importanza. Egli riprenderà questi termini nel suo libro del 1916 Lo
Stato come organismo vivente. Ma è solo dopo il 1918 e soprattutto in
tutt’altro contesto politico che debutterà, con Haushofer; quello che si
può definire il primo movimento di idee geopolitiche.
Per un gran numero di autori che tratteranno più tardi di geopolitica,
questa appare, nel migliore dei casi come una delle forme più
caratteristiche della «ragion di Stato», o di una Realpolitik: il
sovrano e i suoi fidi non prendendo in considerazione nell’interesse
dello Stato che dati materiali considerati come oggettivi e in
primissimo luogo i «dati geografici», e così mettendo tra parentesi
determinati principi politici o morali. Si ripete a volontà la frase di
Napoleone I «la politica degli Stati è nella loro geografia»,
dimenticando che era lui che sceglieva i dati geografici in funzione dei
quali prendeva le sue decisioni per riorganizzare la Germania e
l’Europa. Nel caso peggiore, si pensa spesso, la geopolitica copre con
argomenti speciosi le annessioni più ciniche e brutali.
Ora, la prima apparizione della corrente di idee geopolitiche – in
Germania – si situa al contrario in un momento in cui l’autorità dello
Stato è singolarmente indebolita, nel 1918-’19: dopo che il Reich ha
dovuto chiedere l’armistizio, a causa dello scoraggiamento di una grande
parte dell’esercito per la comparsa in Europa di un nuovo avversario,
l’esercito americano, ma anche a causa delle rivolte comuniste, in
particolare a Berlino. Dopo l’armistizio, si avvia un grande dibattito
nei quale cittadini di diverse tendenze politiche si domandano se
conviene accettare o rifiutare – salvo riprendere la guerra – le
clausole territoriali dei trattato di pace che la coalizione vittoriosa
vuole imporre. Coloro che sperano che il trattato potrà essere rivisto
ulteriormente si oppongono a coloro che vogliono resistere ad ogni
costo: che cosa bisogna accettare, a rigore? Quali sono i territori che
bisogna accettare di abbandonare e quali sono quelli cui aggrapparsi? Di
lasciare la Prussia Orientale non si discute nemmeno!
Fino ad allora, solo i sovrani e i capi di Stato decidevano, con i loro
consiglieri più vicini su questo genere di problemi e non ci si sognava
affatto di riferirne al popolo. Ma nella Germania dei dopo-sconfitta si
ingaggiò fra cittadini di differenti tendenze politiche un vero
dibattito democratico (per quanto segnato da molte violenze) sul
problema del territorio della nazione e delle sue frontiere. Allora era
un fatto assolutamente eccezionale. Certo, negli Stati democratici
c’erano già molti dibattiti politici – sull’attribuzione del diritto di
voto ai poveri o alle donne, sul ruolo della Chiesa, sul sistema di
governo eccetera – ma non c’erano mai stati dei dibattiti geopolitici
cioè imperniati sul problema delle frontiere e sulla definizione stessa
del territorio dello Stato e della nazione.
In questo primo dibattito geopolitico e patriottico, i professori di
storia e di geografia dei licei e specialmente i giovani che tornavano
dal fronte, hanno giocato un ruolo importante. Alcuni tra loro si sono
resi conto che i corsi di geografia politica ispirati dall’opera di
Friedrich Ratzel e che essi avevano seguito quando erano all’università
non servivano a un bel nulla quando si trattava di provare l’ingiustizia
e l’assurdità delle frontiere che i vincitori pretendevano di imporre
alla Germania. Le «leggi scientifiche» della geografia politica che
Ratzel invocava in un insegnamento molto teorico e molto accademico (che
egli aveva voluto al quanto differenziare rispetto agli articoli che
scriveva in quanto presidente della Lega pangermanista) non permettevano
di comprendere i rapporti di forza in Europa né, in modo concreto, la
situazione politica in cui la Germania si trovava dopo la sconfitta.
Inoltre, contrariamente a coloro che affermano che Ratzel è in qualche
modo il fondatore della geopolitica, pare evidente che è semmai proprio
contro l’accademismo della geografia politica ratzeliana che si è
lanciata quella corrente di idee che avrebbe introdotto un nuovo
termine, quello di «geopolitica». La maggior parte dei geografi
accademici tedeschi inizialmente non fu ad essa favorevole, ed è questa
la ragione per cui i professori di liceo trovarono il sostegno di
Haushofer messo ai margini dell’università a causa dei suoi incarichi
militari e della sua carriera diplomatica (in Giappone, prima della
guerra). Ed è per rivolgersi all’insieme dei cittadini che il movimento
geopolitico lanciò una pubblicazione semplicissima, illustrata da carte
schematiche, molto suggestive: Zeitschrift fur Geopolitik. Se Haushofer
non disdegnò di riprendervi alcune «leggi» della geografia politica,
egli tuttavia proclamò che la geopolitica era una scienza nuova: era un
mezzo di imporre le sue tesi con un’operazione apertamente politica,
apertamente differente dal discorso accademico tenuto da Ratzel.
In seguito, per ottenere la revisione dei Trattato di Versailles o
l’Anschluss con l’Austria (ciò che chiedevano anche i partiti di
sinistra tedeschi e austriaci), il movimento geopolitico sviluppò la sua
azione sul piano internazionale, grazie alla collaborazione di geografi
o di diplomatici di diversi Stati europei Unione Sovietica compresa, i
quali non accettavano affatto le frontiere imposte dopo il 1918, anche
coloro che erano stati avvantaggiati volevano ancor di più.
Il partito nazista non cominciò ad acquistare importanza che dieci anni
dopo l’esordio di questa scuola geopolitica che non è, contrariamente a
quanto spesso si afferma, una creazione del nazismo.
I francesi avrebbero d’altronde potuto lanciare la loro propria scuola
di geopolitica ma, all’università, i maestri di quella che si chiamava
la geografia francese o la scuola geografica francese vi si opposero in
nome della scienza e della geografia, pur senza esprimere ragioni
epistemologiche più precise.
In Germania, se Hitler recuperò a proprio uso e consumo gli argomenti
patriottici della geopolitica tedesca e la notorietà di Haushofer; i
nazisti che ebbero le loro riviste di geopolitica, soffocarono poi ogni
dibattito intorno ai problemi dello Stato e della nazione nei rapporti
di forza europei.
Haushofer era un personaggio complesso giacché sua moglie, che ebbe fino
all’ultimo un ruolo importante al suo fianco, era di origine ebraica ed
egli era amico personale di Rudolf Hess il quale volò in Inghilterra
nel maggio 1941. è proprio dell’estate 1941 la rottura tra il Fuhrer e
Haushofer; che allora era al vertice del suo prestigio, giacché egli
aveva fama di essere la mente del patto germano-sovietico dell’agosto
1939 (in nome delle tesi planetarie di Mackinder). Ma Haushofer
manifestò il suo disaccordo quando, nel giugno 1941, Hitler lanciò
improvvisamente l’attacco all’Unione Sovietica. La rivista Zeitschrift
fur Geopolitik cessò le pubblicazioni poco dopo, e Haushofer fu da
allora in poi malvisto dai dirigenti nazisti giacché Rudolf Hess non
poteva più servirgli da garante. Haushofer fu persino arrestato quando
suo figlio, egli stesso geopolitico e diplomatico, fu implicato nei
complotto contro Hitler e assassinato dalla Gestapo.
I rapporti tra la scuola geopolitica tedesca e il nazismo sotto dunque
molto più complicati di quanto abitualmente non si dica. Karl Haushofer;
che alcuni avrebbero voluto vedere tradotto davanti al tribunale di
Norimberga, dove erano giudicati i dirigenti nazisti fu risparmiato
dagli americani che cominciavano a interessarsi molto di geopolitica. Ma
nel 1946 egli si suicidò insieme alla moglie.
Si tratta ora di capire perché il termine geopolitica sia stato
proscritto per così lungo tempo, dopo la fine della seconda guerra
mondiale, quando sarebbe stato assolutamente possibile contrapporre alla
geopolitica dei nazisti una geopolitica dei loro avversari. Perché
questo termine è stato oggetto di un simile tabù (salvo che per l’uso
interno degli ambienti vicini alla Casa Bianca, al Pentagono o al
Cremlino) e ciò per trentacinque anni, malgrado diverse spettacolari
decisioni prese sia all’Est che all’Ovest avrebbero meritato la
qualifica di «geopolitiche»?
Quando la guerra fredda era al culmine, gli americani avrebbero potuto
appropriarsi di una geopolitica del mondo libero e accusare i sovietici
di praticare una geopolitica oppressiva. Questi ultimi avrebbero potuto
impossessarsi di una geopolitica anti-imperialista e socialista. Alcuni
scritti sovietici accusavano il pentagono di riappropriarsi della
geopolitica hitleriana, ma, fatto curioso, i comunisti non insistettero.
In effetti, Stalin aveva fatto proibire in Unione Sovietica e in tutti
gli Stati diretti dai partiti comunisti ogni riferimento alla
geopolitica (e persino alla geografia umana, sospetta di connivenza), se
non per denunciarla come consustanziale al nazismo, ma senza troppa
convinzione. Sembra che Stalin volesse far dimenticare assolutamente
quella grande operazione geopolitica che era stato il Patto
germano-sovietico, nel quale si era fatto intrappolare, non prevedendo
che l’attacco tedesco sarebbe venuto meno di due anni dopo. In quella
operazione egli sarebbe stato sedotto dalle pretese leggi geopolitiche
di Haushofer-Mackinder; che intendevano dimostrare la necessità di
un’Eurasia unificata, dall’Atlantico al Pacifico, e ciò tanto più in
quanto al centro dell’Unione Sovietica era situato lo Heartland che, per
Mackinder, era il futuro «centro del mondo».
D’altra parte, dopo lo scatenamento della guerra fredda, a partire dal
1947, la costituzione di due blocchi contrapposti in Europa, schierati
lungo la linea di confine fissata dagli accordi di Jalta nel 1945,
spinse i leader dei due schieramenti a proscrivere ogni idea, ogni
rappresentazione che non rafforzasse quella dello scontro planetario
delle due concezioni del mondo: il «mondo libero» che i suoi avversari
definivano imperialista o capitalista, e il «mondo socialista», chiamato
più semplicemente mondo comunista. Questa rappresentazione – la
divisione del mondo in due coalizioni con le loro zone di influenza –
era peraltro di tipo perfettamente geopolitico – rivalità di poteri su
dei territori, ma, per i dirigenti dell’una o dell’altra superpotenza,
non era auspicabile impiegare un termine che non poteva mancare di
ricordare i recenti conflitti nazionali, né di ricordare a ciascuna
nazione quanto aveva lottato per difendere o riconquistare il suo
territorio.
Le nazioni appartenevano ormai all’uno o all’altro blocco, ed era
importante che nulla ne indebolisse la coesione. Nel «campo socialista»
gli Stati erano considerati fratelli grazie al socialismo, e la
geopolitica andava dunque vietata, poiché era così strettamente legata
ai conflitti territoriali che li avevano opposti gli uni agli altri solo
poco tempo prima. I conflitti sul territorio dovevano essere per
principio dimenticati una volta per tutte. In «Occidente» non era più
considerato opportuno evocare la geopolitica né i litigi territoriali
(per esempio, l’Alsazia-Lorena) che avevano portato a combattersi così
duramente tra loro delle nazioni che oramai facevano parte dell’Alleanza
atlantica. In ciascuno dei due campi, i problemi delle nazioni e dei
loro territori dovevano apparire secondari e sorpassati tenendo conto
della contrapposizione planetaria di due ideologie, di due sistemi, di
due mondi dai valori radicalmente diversi.
Non tutte le rivalità fra poteri sul territorio sono necessariamente
geopolitiche. E Dio sa quanto grande fosse questa rivalità ai tempi
della guerra fredda, giacché la posta in gioco era l’estensione delle
zone di influenza dell’una o dell’altra superpotenza sulla maggior parte
del globo. Ma la parola «geopolitica» era proscritta. Certo, c’erano
dei grandi dibattiti politici, ma essi erano fondati sui valori
ideologici (il Bene socialista contro il Male capitalista, e viceversa) e
sulle ragioni economiche della concorrenza fra le superpotenze. Ma non
c’erano affatto discussioni sulle rappresentazioni propriamente
territoriali di questa competizione. La teoria detta «del domino»,
formulata a partire dal 1954 dai dirigenti americani a riguardo della
pressione comunista nel Sud-Est asiatico, era abbastanza rudimentale a
causa del suo aspetto meccanico, e d’altronde non suscitò un grande
dibattito.
È particolarmente significativo che il termine geopolitica abbia
ricominciato ad apparire sui media occidentali non gia in occasione
della guerra di Corea, né durante la guerra di Indocina, quando il più
lungo e più forte scontro militare fra Est e Ovest era al suo culmine,
ma solo dopo la fine di questo scontro: e precisamente nel 1978-’79 al
tempo del conflitto fra Cambogia e Vietnam. Riapparizione dapprima
timida, per la penna di certi giornalisti. Benché si trattasse di paesi
molto lontani dall’Europa, il tabù in un primo tempo fu rispettato,
nella misura in cui la geopolitica fu ancora una volta presentata come
la peggiore e la più stupida delle maledizioni che possano abbattersi
sui popoli: appena terminata una così lunga guerra, in cui i loro
dirigenti erano stati alleati contro l’imperialismo, ora questi
arrivavano a battersi per delle dispute di confine e in nome dei diritti
storici su determinati territori.
In un momento in cui l’opinione pubblica mondiale, grazie ai media,
seguiva con passione ciò che avveniva in Indocina (gli americani si
erano massicciamente impegnati contro il comunismo, prima di mollare la
presa), questo nuovo avvenimento mostrava in modo spettacolare che,
persino in seno al blocco comunista, le rivalità territoriali tra due
nazioni erano talmente gravi da poterle condurre alla guerra. Certo,
dopo la rottura fra Cina e Unione Sovietica nel 1958, questo blocco era
diviso, ma si pensava che degli Stati comunisti, malgrado le loro
rivalità, non potessero arrivare alla guerra aperta. Quella che scoppiò
tra i khmer rossi e i comunisti vietnamiti per il controllo di una parte
del delta del Mekong ebbe dunque un eco fortissima nel mondo e
contribuì al riapparire della parola «geopolitica» per designare degli
antagonismi molto meno ideologici che territoriali. Ciò diede luogo a
diversi dibattiti nel mondo occidentale, e non solamente tra i marxisti,
sconcertati e dilacerati da quella che consideravano come una «lotta
fratricida».
Il modo di porre i problemi in termini economici e politici o di
rapporti di classe era messo per la prima volta spettacolarmente in
causa da un’altra rappresentazione, che dava importanza ai territori e
alle poste in gioco di tipo economico, strategico e soprattutto
simbolico che essi costituivano per degli Stati o dei popoli. È
sintomatico che queste discussioni, non limitate agli specialisti, ma
che riguardavano correttamente, sul piano internazionale, un gran numero
di cittadini, fossero sempre più associate alla riapparizione del
termine «geopolitica» nei media occidentali.
In seguito a questo conflitto cambogiano, altre ambizioni territoriali
fondate su «diritti storici» hanno provocato altre guerre di grande
rilievo, da quella che oppose Iraq e Iran dal 1980 al 1988, fino
all’invasione e all’annessione del Kuwait da parte dell’Iraq nel 1990,
da cui nacque la guerra del Golfo (1991), preceduta quest’ultima da
grandi discussioni geopolitiche in tutto il mondo. In questi due casi,
Saddam Hussein pretendeva di liberare dei territori «storicamente parte
della nazione irachena», caso evidente di rappresentazione geopolitica
radicalmente opposta a quella dei suoi avversari. Tuttavia, nel Vicino
Oriente, il conflitto tra Israele e Palestina curiosamente non è stato
considerato geopolitico, benché sia uno dei conflitti geopolitici più
complessi. Invece, quello dell’Afghanistan ha largamente contribuito, a
causa delle reazioni suscitate, alla diffusione dei ragionamenti
geopolitici.
Il trionfo del diritto dei popoli di disporre di se stessi e.. della geopolitica
È soprattutto dopo il 1985 che l’uso del termine geopolitica ha
conosciuto il suo maggiore sviluppo. Intanto in quanto sono apparse, in
Europa orientale e sul piano mondiale, tutte le notevoli conseguenze
della perestrojka, e in special modo la glasnost – cioè l’esortazione ai
giornalisti di usare di una nuova libertà di stampa – si è venuti in un
numero crescente di paesi a considerare la geopolitica come un nuovo
modo di vedere il mondo. Infatti, il crollo dei regimi comunisti ha
disvelato la molteplicità di rivendicazioni di indipendenza nazionale e
le loro contraddizioni territoriali nella maggior parte d’Europa, in
Europa centrale, nei Balcani e nella ex Urss. In seno a ciascuna
nazione, compresa la Russia, la recente libertà di espressione ha
provocato dei dibattiti paragonabili in qualche misura a quelli che i
tedeschi avevano conosciuto quando apparve il movimento geopolitico.
«Bisogna staccarsi dall’Unione Sovietica?» Se i baltici hanno risposto
in massa di sì, la risposta era, invero, molto meno evidente nelle altre
repubbliche, se non inversa, prima del tentativo di putsch dell’agosto
1991. «Dobbiamo accontentarci del territorio della nostra repubblica
così come è attualmente delimitato o non dobbiamo profittare invece
delle condizioni attuali per rivendicare da subito i nostri territori
“storici”, dove si trova una parte dei nostri compatrioti?». Si tratta
evidentemente di dibattiti fondamentalmente geopolitici e che d’altro
canto hanno scavalcato in importanza quelli propriamente politici. I
problemi posti sembrano di soluzione alquanto ardua a causa delle
aspirazioni territoriali contraddittorie della maggior parte delle
nazioni dell’ex Urss e del fatto che in certe regioni siano in casto
nate diverse minoranze nazionali.
Se la scomparsa dell’Urss non ha provocato finora grosse perdite umane,
salvo che nei conflitti caucasici o in Tagikistan, i rischi di
frammentazione della Repubblica federativa di Russia a causa delle
rivendicazioni di diversi popoli appartenenti alle repubbliche autonome e
soprattutto il destino dei 25 milioni di russi che vivono fuori della
Russia, pongono problemi geopolitici tanto più gravi in quanto
cominciano a essere sfruttati da alcuni leader politici. Inoltre le
strutture della Csi appaiono fragilissime.
Se la dimensione della Cecoslovacchia si è fatta nella calma, dopo
serie discussioni geopolitiche, la disgregazione della Federazione
jugoslava, dopo le proclamazioni di indipendenza delle repubbliche
federate, ha provocato combattimenti terribili, in Croazia e soprattutto
in Bosnia: il fatto che le diverse nazionalità siano frammiste sul
territorio e i timori reciproci costituiscano l’eredità di una storia
dolorosa e complicata, sono le cause principali della tragedia attuale.
Ma questa avrebbe potuto indubbiamente essere scongiurata se i
diplomatici europei, prima di riconoscere l’indipendenza di queste
repubbliche, avessero misurato i rischi connessi all’incastratura delle
nazionalità sul terreno e se i leader slavi, per far dimenticare il loro
recente passato comunista o per prevalere sui rivali, non avessero
fomentato la crisi e l’esasperazione delle rappresentazioni geopolitiche
antagoniste.
L’accentuazione e la moltiplicazione delle preoccupazioni geopolitiche
riguardano anche Stati dell’Europa occidentale, a causa dello sviluppo
di ciò che viene definito democrazia e del rispetto della libertà di
espressione.
L’emergere di poteri regionali, il riconoscimento dei particolarismi
culturali persino nel quadro di un vecchio Stato nazionale a forte
tradizione centralista come la Francia, pone nuovi problemi geopolitici:
per apparire democratico, il governo, seguendo la maggioranza
dell’opinione pubblica, discute con nazionalisti còrsi presunti
responsabili di diversi attentati che, appena vent’anni fa, sarebbero
stati giudicati e incarcerati da tempo. La Francia aveva già conosciuto
più di un dibattito politico – anche molto violento – ma è in realtà la
prima volta che in tempo di pace alcuni cittadini pongono un problema
geopolitico che fino ad allora non era mai stato possibile discutere
apertamente: quello della separazione di una parte del territorio
nazionale, destinato a diventare territorio di un altro… popolo e di
un’altra nazione. Occorre che la libertà di espressione sia divenuta ben
grande perché simili rappresentazioni separatiste possano esprimersi
liberamente e perché i dibattiti politici vertano su problemi
geopolitici di tale gravità.
In Europa occidentale, a parte la riunificazione della Germania – che
porre ormai dei problemi geopolitici interni – è in Spagna che le
trasformazioni geopolitiche recenti sono state più considerevoli dopo la
morte di Franco, che aveva vietato l’espressione dei particolarismi
culturali basco e catalano, lo Stato è stato diviso in «comunità
autonome», cioè in governi autonomi corrispondenti alle vecchie
province, favorendo così il consolidamento delle nazioni basca e
catalana.
In Canada come in Australia (e presto nel Nord della Russia e altrove)
piccolissimi gruppi di persone – che si tratti di indiani, di inuit o di
aborigeni australiani – consigliati da abili avvocati e con l’appoggio
dei media, arrivano a rivendicare i loro diritti su spazi vastissimi:
essi esigono, ad esempio, il versamento di royalties sullo sfruttamento
delle risorse minerarie o idrauliche dei loro territori. Simili pretese
geopolitiche non possono esprimersi e non possono ottenere soddisfazione
che in società molto attaccate ai valori democratici e alla libertà di
stampa, al punto che esse lasciano sviluppare fino alle estreme
conseguenze «il diritto dei popoli a disporre di se stessi», aiutando
persino dei gruppi di qualche migliaio di persone a costituire dei
micro-pseudo-Stati, come quegli arcipelaghi del Pacifico riconosciuti
dalle istituzioni internazionali. Anche in quei casi si tratta di
geopolitica, così come geopolitici sono i problemi posti, nelle grandi
città di numerosi paesi, dalle minoranze di immigrati. Anch’esse
rivendicano il loro diritto alla differenza e all’autonomia.
Sicché l’esame degli svariati problemi geopolitici dello stesso tipo
recentemente emersi in Europa, e l’ascolto dei dibattiti non meno
geopolitici che essi provocano sia nelle nazioni che fra di esse,
confermano essenzialmente l’affermazione fatta precedentemente. E cioè
che sono specificamente geopolitiche le rivalità territoriali oggetto di
rappresentazioni contraddittorie oggi largamente diffuse dai media, e
che suscitano dibattiti politici fra i cittadini, a condizione che vi
sia una certa libertà di espressione.
Da alcuni decenni si stanno moltiplicando e sviluppando fenomeni
specificamente geopolitici, cioè le polemiche tra cittadini riguardo a
problemi di poteri-territorio sul piano nazionale e internazionale.
Nella maggior parte dei paesi, in particolare in tutta una parte
d’Europa, la nazione è ancora oggi la rappresentazione geopolitica per
eccellenza, non fosse che per i valori particolarmente forti di cui è
caricata, soprattutto quando le lotte per l’indipendenza sono recenti
come nell’ex Unione Sovietica, o sono ancora in svolgimento, come
nell’ex Jugoslavia.
Tuttavia – fenomeno relativamente nuovo – in un certo numero di paesi,
in Europa occidentale ma anche nel mondo musulmano e in Africa, lo Stato
nazionale non è più la sola rappresentazione geopolitica e si trova in
concorrenza con rappresentazioni molto più vaste e più vaghe o al
contrario più ristrette e più precise, anch’esse però cariche di valori.
La diffusione di queste rappresentazioni rivali della nazione è opera
di movimenti politici in cui gli intellettuali giocano un ruolo
importante.
È il caso dei movimenti islamisti che lottano non solo per
l’applicazione della sola legge coranica, la sharia, nel mondo
musulmano, ma anche per l’unità politica di questo enorme insieme. Essi
mettono in atto una strategia veramente geopolitica per realizzare,
sotto il loro controllo, l’unità non solo religiosa ma anche politica
della umma, la comunità musulmana: un miliardo di uomini (e di donne!)
in un’area che si estende dall’Atlantico al Pacifico, dagli Urali
all’Indonesia o al Golfo di Guinea, ma divisa in una quarantina di
Stati. Per superare i contrasti politici e culturali, e in particolare
la diversità delle lingue in seno all’umma (dove l’arabo, la lingua del
Corano, non è parlata che da un quinto dei musulmani), gli islamisti
indicano a tutti i musulmani un avversario comune, l’Occidente, grande
astrazione geopolitica se mai ve ne è una. Essi li chiamano a lottare
contro l’Occidente anzitutto abolendo quelle frontiere che essi
sostengono essere state tracciate in seno alla comunità musulmana per
trarre profitto dalle sue divisioni e dal petrolio. Denunciando la
tirannia e le turpitudini dei dirigenti di questi Stati, giudicati
illegittimi in quanto rifiutano di fondersi nella umma, e promettendo di
instaurare una società perfetta ispirata ai comandamenti di Dio,
l’internazionale islamista spera di stabilire su gran parte dell’umanità
un potere più duraturo di quello dell’Internazionale comunista. Ma i
combattimenti in corso a Kabul e in tutto l’Afghanistan fra i diversi
gruppi islamisti dopo la loro vittoria sul regime comunista provano che
invocare l’unità della umma non impedisce loro di speculare sui
particolarismi tribali o sulle rivalità etniche, sollecitando l’appoggio
di Stati islamici e pur tuttavia rivali come Iran, Arabia e Pakistan.
In Europa occidentale, nell’ambito di alcuni vecchi Stati nazionali,
l’idea stessa di nazione tende a stemperarsi. I valori che vi erano
associati sembrano oggi sorpassati. Furono in grande misura le guerre
che le opposero le une alle altre a forgiare queste nazioni. Ora,
l’oblio che ci si è sforzati di gettare sui drammi della seconda guerra
mondiale, poi la costruzione della Comunità europea, l’abolizione
progressista delle frontiere, la fine delle minacce esteriori che si
scrutavano al di là della cortina di ferro – tutto ciò ha indebolito
l’idea di nazione, o almeno la rende molto meno esclusiva di un tempo.
Di conseguenza cresce il peso di altre rappresentazioni geopolitiche,
come quella di «Europa» e soprattutto quella di regione, a causa delle
politiche di decentramento condotte dalla maggior parte dei governi, e
dall’esempio dato dai Lander di uno Stato potente come la Repubblica
federale Germania. Certo, queste regioni sono dotate di «personalità»
più o meno spiccate. In certi casi, la celebrazione dell’identità
regionale si avvicina al discorso sulla nazione e le idee separatiste
conquistano una parte della popolazione, tanto più facilmente a causa
della maggiore libertà di espressione.
Questo tipo di Stato, lo Stato nazionale, compimento di una lunga
storia, non è forse così irreversibile come lo si credeva qualche tempo
fa. Perché si possa veramente parlare di Stato nazionale occorre che una
grande parte della popolazione si senta effettivamente toccata
dall’idea di nazione, della sua unità e della sua indipendenza, e la
consideri il quadro fondamentale della vita politica. Tra qualche
decennio non sarà forse più questo il caso per un certo numero di paesi
europei, le cui prerogative inoltre si saranno diluite a causa dello
sviluppo dei poteri delle istituzioni sovrannazionali europee e della
mondializzazione dell’economia sotto la direzione delle grandi imprese
sovrastatali.
La geopolitica come approccio scientifico
Occorre sottolineare ancora una volta che tutte le opinioni geopolitiche
che si affrontano o si confrontano, in quanto riferite a rivalità di
poteri (ufficiali o ufficiosi, attuali o potenziali) su dei territori e
sugli uomini che vi abitano, sono delle rappresentazioni caricate di
valori, più o meno parziali e più o meno consapevolmente di parte,
relativi a situazioni reali le cui caratteristiche obiettive sono di
difficile definizione.
Per squalificare i rivali, alcune tesi geopolitiche si proclamano
scientifiche e si riferiscono a «leggi» della storia, della natura o
della geografia – del tipo di quelle che Ratzel aveva preteso stabilire
fondandosi sui atti della geografia fisica, in particolare le forme dei
rilievi e il contorno delle terre e dei mari – perché esse sembrano
«eterne» e in grado di sfidare i secoli. Questo genere di discorso non
deriva affatto dalla razionalità, né a maggior ragione dalla scienza,
quando pretende di fondare un giudizio su un preteso rapporto diretto di
casualità fra assiomi generali e una situazione particolare in cui si
affrontano dei poteri nel quadro di una complessa evoluzione storica.
Tuttavia, tali discorsi sedicenti «scientifici», come pure le tesi
storiche grossolanamente articolate, non sono da prendere alla leggera,
perché hanno un potere di mobilitazione considerevole.
La sola maniera scientifica di affrontare qualsiasi problema
geopolitico è di porre subito in chiaro, come principio fondamentale,
che esso è espresso da rappresentazioni divergenti, contraddittorie e
più o meno antagoniste.
Bisogna anche tener conto del fatto che ciascuna di queste
rappresentazioni non è unicamente fondata su dati spaziali e sulla
situazione presente. Ciascuna si riferisce alle situazioni e ai
conflitti precedenti, che rimontano più o meno indietro nel tempo.
Queste memorie selettive sono evidentemente cariche di giudizi di
valore. Ciascuna si fonda sulla sua versione della storia, su antichi
tracciati di frontiera, su configurazioni spaziali di cui si conserva o
meno la memoria, secondo le necessità della causa. È il problema dei
«diritti storici» che si riferiscono a tale o talaltra carta o a tale o
talaltra descrizione di geografia storica. Una certa rappresentazione,
ad esempio, riposa sui «tempi lunghi» per fondare i suoi diritti su un
lontano passato. Al contrario, i suoi avversari giocheranno i «tempi
brevi» se sono loro più favorevoli. Tale rappresentazione «salta» tutto
un periodo del passato, quello che invece valorizza il discorso avverso.
Rari sono i ragionamenti geopolitici che non fanno alcun riferimento
alla storia e in cui gli argomenti appaiono come unicamente spaziali. È
dunque tanto più necessario esaminare le ragioni storiche che inducono
gli autori di certe rappresentazioni a tacere o a sottolineare
determinati periodi.
Occorre infine sottolineare che, come i discorsi, così le
rappresentazioni geopolitiche non appartengono inizialmente a uno Stato o
a un popolo, ma a personaggi o a piccoli gruppi che le hanno formulate o
inventate. Anche se in seguito esse sono largamente propagate e
adottate dalla grande maggioranza di una nazione, esse sono anzitutto
legate a uomini politici (o a loro consiglieri), ma anche ad
intellettuali – spesso geografi o storici – che esprimono, oltre agli
interessi dello Stato o del gruppo intellettuale che servono, la loro
maniera personale di vedere le cose.
Ci sono anche i discorsi dei rivali o di coloro che sono all’opposizione
(perlomeno quella del momento) che, senza per altro accedere alle tesi
dell’avversario straniero, tengono a rimarcare la propria diversità
rispetto al regime al potere. L’analisi «oggettiva» di osservatori
stranieri non implica che essi siano necessariamente neutrali. Essi sono
particolarmente sollecitati, e bisogna tener conto di certe relazioni
sentimentali, delle affinità ideologiche e delle somiglianze che possono
esistere tra problemi di Stati diversi.
Certo, bisogna cercare di rendere conto nel miglior modo possibile della
complessità delle interazioni tra le molteplici rappresentazioni
geopolitiche più o meno soggettive e di taglia variabile, dalla locale
alla planetaria. Ma non si può concepire la geopolitica come approccio
scientifico se non si pone come principio fondamentale che si tratta di
analizzare delle rivalità territoriali fra differenti tipi di poteri,
essendo ogni territorio disputato sia una posta in gioco in quanto tale,
per ragioni strategiche, economiche o simboliche, sia solamente un
terreno su cui si affrontano influenze rivali.
Principio corollario: poiché si tratta di analizzare delle rivalità tra
un certo numero di forze, le rappresentazioni che ciascuna di esse dà di
se stessa e della situazione sono parziali, faziose e antagoniste, così
come le loro strategie sono divergenti o antagoniste. Ma occorre
cercare di renderne conto in modo oggettivo, se non imparziale.
Come si è potuto parlare di scienza politica a partire dall’epoca in cui
una pluralità di attori, di movimenti, di partiti concorrenti è stata
presa in considerazione con l’intenzione di spiegare obiettivamente le
loro rivalità, la geopolitica può essere considerata come metodo
scientifico («scienza» sarebbe ancora presuntuoso in un campo così
carico di contraddizioni) dal momento in cui l’una e l’altra tesi rivale
sono presentate in buona fede e si cerca di comprenderle entrambe in
profondità.
La ragion d’essere di un simile approccio non è solamente un desiderio
di obiettività, è anche l’efficacia. È un modo di capire o di meglio
intendere ciò che accade e forse ciò che può accadere. Se è già
intellettualmente gratificante osservare il normale svolgimento delle
rivalità politiche sulla carta elettorale di uno Stato, di una grande
città o di una regione, diventa assolutamente necessario essere in grado
di analizzare degli scontri i cui effetti sono molto più gravi e in cui
le poste in gioco sono molto più importanti, sia per agevolare una
soluzione di compromesso, sia per contribuire alla vittoria della
propria causa. Ma perché l’approccio geopolitico funzioni, occorre un
metodo di analisi.
Intersezioni di livelli spaziali e differenti livelli di analisi spaziale
Per capire in che cosa i metodi e i ragionamenti geografici sono
indispensabili a qualsiasi analisi geopolitica, bisogna sottolineare
che, contrariamente a un’opinione assai diffusa, i fenomeni detti fisici
non sono che una parte delle molteplici categorie di fenomeni presi in
considerazione dalla geografia. Certo, ciascuna di queste categorie è
oggetto di una scienza particolare (come la geologia o la demografia).
Quanto alla geografia, essa tiene conto delle raffigurazioni spaziali di
tutti questi fenomeni.
Ogni fenomeno cartografabile deriva dalla geografia, che si tratti di
dati geologici e della localizzazione di giacimenti petroliferi, del
tracciato dei corsi d’acqua e dei rilievi, ma anche della ripartizione
della popolazione, di una determinata opinione politica, o della
localizzazione delle attività economiche, o delle frontiere in questa o
quell’epoca eccetera. Ora, le differenti tesi geopolitiche che si
affrontano utilizzano ciascuna tale o talaltro dato geografico per
provare il loro buon diritto, ed è dunque utile avere una visione di
insieme e una visione precisa di ciascuno di questi dati. Così, la
rivendicazione o la difesa delle «frontiere naturali», tesi geopolitica
classica, si fonda sulla presentazione delle forme del rilievo; ma
ciascuna delle forze in campo sceglie come linea legittima, fra i
tracciati dei corsi d’acqua e gli spartiacque, quello che è posto più
«avanti», in modo da estendere il proprio territorio.
Lo studio delle differenti rappresentazioni e dei diversi argomenti
geopolitici deve prendere in considerazione carte attuali e carte
storiche che rappresentino, per una stessa porzione di spazio terrestre,
la ripartizione di queste diverse categorie di fenomeni. Presa in
considerazione attenta e critica, giacché queste carte hanno origini e
significati politici. Inoltre, in materia di geopolitica, l’uso delle
carte è oggetto di trucchi che sfuggono ai non iniziati: ciascuna delle
rappresentazioni geopolitiche che si confrontano per il controllo dello
stesso territorio fonda i suoi argomenti sulla carta che meglio le
conviene, mentre la tesi rivale sceglie, senza dirlo, un’altra carta che
rappresenta altri fenomeni e che pare confortare le sue rivendicazioni.
Queste tattiche cartografiche contraddittorie sono rese possibili dal
fatto – generalmente disconosciuto – che ciascuno dei fenomeni che
isoliamo nel pensiero ha la sua particolare configurazione spaziale su
una stessa porzione di territorio. Così la maggior parte dei differenti
insiemi spaziali che si possono tracciare su una stessa carta (o su dei
calchi) per rappresentare le diverse caratteristiche di uno stesso
territorio (risorse geologiche, forme del rilievo, insiemi di
vegetazione, distribuzione della popolazione, ripartizione delle lingue,
delle religioni eccetera) ha dei limiti che non coincidono con quelli
di altri insiemi spaziali. Questi insiemi spaziali formano una serie di
intersezioni.
Ciò riveste una grande importanza in materia di ragionamenti
geopolitici, soprattutto quando si tratta di frontiere. La maggior parte
delle frontiere traversano le intersezioni che formano i limiti dei
diversi insiemi spaziali. Ne sono risultati gravi conflitti geopolitici.
Basti citare quello tra Francia e Germania, provocato in particolare
dalla questione dell’Alsazia-Lorena, cioè dalla non coincidenza del
tracciato attuale della frontiera franco-tedesca con il limite verso
ovest delle lingue germaniche. E il fatto che la frontiera Iran-Iraq, di
antica data, non coincida con l’estensione delle lingue arabe verso
est, né con l’estensione della religione islamica sciita verso ovest, è
una delle cause della guerra del 1980-’88 e può esserlo anche di un
futuro conflitto fra questi due Stati. Ecco perché bisogna essere molto
attenti a queste intersezioni di insiemi.
L’analisi delle intersezioni degli insiemmi è molto difficile quando
tali insiemi spaziali appartengono a ordini di grandezza molto
differenti. Conviene allora per comodità chiamare insiemi del primo
ordine quelli che si misurano in decine di migliaia di kilometri; del
secondo ordine, quelli che si misurano in centinaia di kilometri, e così
via fino alle decine di kilometri, ai kilometri eccetera.
Importa notare che nella maggior parte dei casi, a eccezione dei
deserti, più questi insiemi sono grandi, più la loro popolazione è
numerosa, e più essi sonno concepiti, formati, a un forte grado di
astrazione; è particolarmente il caso dell’insieme planetario definito
Terzo mondo, che conta più di 4 miliardi di individui.
Non è facile articolare scientificamente una rappresentazione formata a
un forte grado di astrazione, e un insieme di dimensioni ben minori è
perciò molto più concreto. Le rappresentazioni geopolitiche che
mescolano tutti questi insiemi in modo più o meno vago. Così, durante le
polemiche suscitate dalla guerra del Golfo, la causa dell’Iraq è stata
spesso presentata, a torto o a ragione, come quella del Terzo mondo
vittima dell’attacco occidentale: siamo al livello di insiemi di
dimensioni planetarie, dai vaghi contorni, difficilmente definibili, ma
carichi di valori particolarmente forti. Ora, se la posta in gioco più
immediata del conflitto, il territorio del Kuwait, è dell’ordine delle
centinaia di kilometri, a medio termine la posta in gioco più vasta è
l’insieme dei giacimenti petroliferi del Golfo arabo-persico, che si
estende per un migliaio di kilometri circa.
Per vederci più chiaro, il metodo è di classificare per ordine di
grandezza i molteplici insiemi di qualsiasi taglia che bisogna prendere
in considerazione – che siano geologici o religiosi – e di rappresentare
questi diversi ordini (dal locale al planetario) come una serie di
piani sovrapposti, con per ciascuno di essi la carta che mostri le
intersezioni degli insiemi di dimensioni simili cartografati alla stessa
scala. È combinando i dati che appaiono su ciascuno dei piani di un
tale schema, che alcuni definiscono «diatopico» o «multiscalare», che si
potrà condurre il ragionamento ai diversi livelli di analisi spaziale.
Un tale approccio costituisce, con lo studio delle intersezioni degli
insiemi, la forma più operativa, più strategica del ragionamento sui
territori, cioè il ragionamento geografico nella sua definizione
epistemologica più efficace.
Così si possono avere rappresentazioni più complete e più oggettive di
quelle delle parti in causa. In effetti la geopolitica, in quanto
approccio scientifico, non si limita all’esame delle rappresentazioni
contraddittorie. Essa deve sforzarsi di costruire una rappresentazione
più globale e molto più obiettiva delle situazioni, per proporre
soluzioni agli scontri in atto ma anche per cercare di prevedere gli
scenari futuri.
Scenari geopolitici e diversi tempi della Storia
Nell’evoluzione delle situazioni geopolitiche che occorre distinguere
tempi lunghi e tempi brevi, riprendendo e precisando l’approccio di
Fernand Braudel. Alla stregua dei diversi piani sovrapposti secondo gli
ordini di grandezza dell’analisi spaziale, è possibile differenziare le
categorie dei fenomeni geologici, demografici, economici eccetera, in
funzione delle durate e dei ritmi temporali alquanto differenti secondo i
quali essi evolvono. Essi si distinguono nella lunga durata, si
accavallano e interferiscono, ma devono essere tutti presi in
considerazione nei tempi brevi più vicini al presente. Importa poi
distinguere con maggior precisione di Fernand Braudel la categoria dei
tempi brevi, e distinguere ciò che si misura in mesi da ciò che si
misura in giorni e anche da ciò che si svolge nell’arco delle ore,
giacché i tempi brevissimi possono avere una notevole importanza nello
svolgimento dei conflitti attuali. I tempi lunghi sono misurati in anni o
decenni; quanto ai tempi lunghissimi, si contano in secoli.
Così, nelle rappresentazioni geopolitiche dei popoli dell’Asia
sud-orientale, in particolare dei vietnamiti, ma oggi anche degli
indonesiani, un movimento abbozzato già più di duemila anni fa è una
delle maggiori preoccupazioni: la spinta secolare degli Han dal Nord
della Cina verso quello che si può chiamare il Mediterraneo asiatico.
Geopolitica e cittadini
Lo sviluppo della libertà di stampa e della libertà di espressione in un
sempre maggior numero di paesi provoca la moltiplicazione delle
rivendicazioni geopolitiche di dimensione locale, regionale e nazionale.
Contrariamente a coloro che proclamano che il mondo si degeopoliticizza
(sic) perché la guerra fredda è finita, si può pensare che il mondo
entri progressivamente nell’èra della geopolitica. E si tratta di
fenomeni geopolitici sempre più complessi e interdipendenti. La
scomparsa dell’Unione Sovietica come superpotenza non significa la fine
del confronto fra grandi potenze: di fonte agli Stati Uniti si parano
oggi il Giappone e la Germania. Le lotte per l’indipendenza, dopo
essersi concentrate nei paesi africani e asiatici alla metà del XX
secolo, interessano nuovamente un gran numero di nazioni europee. Sicché
l’approccio geopolitico è sempre più necessario a tutti i cittadini.
Da qualche anno, un certo numero di associazioni simpatizzanti per le
cause umanitarie da esse difese, hanno assunto come slogan l’espressione
«senza frontiere». La prima è stata Médecins sans frontières, che
svolge un ruolo notevole in tante tragedie. Da allora, lo slogan «senza
frontiere» è di moda. Checché se ne dica, le frontiere esistono e, se
esse tendono a impallidire in Europa occidentale, il diritto dei popoli a
disporre di se stessi le moltiplica dolorosamente in tutto l’Est
europeo. Gli animatori della maggior parte di questi movimenti «senza
frontiere» sanno bene che le frontiere esistono, visto che cercano di
superarle per fare il loro lavoro. Ora, la funzione del ragionamento
geopolitico è anche quella di un ponte che permetta di superare
l’ostacolo. Facendo capire quali sono le idee e gli antagonismi da una
parte e dall’altra delle frontiere, la geopolitica aiuta a scavalcarle
e, forse, a contribuire a formare una disposizione d’animo che aiuti a
cercare la soluzione pacifica di alcuni conflitti.
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