lunedì 15 aprile 2013

L’Alba vuole sopravvivere a Hugo Chávez.

FONTE: LIMES - Rivista geopolitica

di Andrea Califano

L’Alleanza bolivariana per i popoli di nostra America è stata fondata da Fidel Castro e dal presidente venezuelano recentemente scomparso per offrire all'America Latina un modello alternativo al capitalismo statunitense. Un progetto ambizioso ma dal futuro incerto.

Una delle eredità del presidente venezuelano Hugo Chávez è l’Alleanza bolivariana per i popoli di nostra America (Alba). Essa nasce nel 2004 facendo naufragare il progetto della Zona di libero commercio delle Americhe (Alca in spagnolo) promossa dagli Usa e osteggiata da molti paesi della regione, tra cui, appunto, i fondatori dell’Alba: Cuba e Venezuela, Castro e Chávez.

Negli anni l'Alba si è sviluppata fino a comprendere 8 Stati e almeno 10 dimensioni, tra cui cultura (fondate anche università regionali), energia, finanza, commercio e produzione. Il collante dei vari elementi è la volontà di affermare una vera indipendenza e autonomia decisionale per gli Stati partecipanti, in opposizione a modelli dominanti troppo spesso percepiti, nel corso della travagliata storia del continente, come imposti dall’esterno: tra tutti, gli esperimenti liberisti degli anni Ottanta-Novanta accompagnati all’instaurazione di democrazie spesso tali solo nel nome.

Molti analisti parlano perciò di progetto contro-egemonico, basato in primo luogo su alcuni concetti innovativi di immediata rilevanza economica. Tra questi lo sviluppo endogeno a livello regionale e la volontà di sfruttare i vantaggi cooperativi dell’Alleanza nel suo insieme.

Di cosa si tratta? Non è chiaro, e non potrebbe esserlo data la breve vita dell’organizzazione e il forte carico ideologico e polemico che appesantisce e riveste ogni dichiarazione da parte dei leader, ogni riga dei documenti ufficiali e molte analisi.

Al centro dell'Alba c'è il recupero del ruolo dello Stato, attivo in economia, quindi nella fase produttiva, nella gestione degli scambi internazionali e nella distribuzione, con l’obiettivo di incanalare le risorse verso uno sviluppo che non dimentichi la maggioranza povera della popolazione e che sia ispirato dal buen vivir. Questa è un’altra delle parole d’ordine dell’alleanza, del chavismo e dei governi della nuova sinistra latinoamericana; spogliata da proclami palingenetici, nel concreto si definisce come una lotta alle profonde disuguaglianze all’interno degli Stati e tra gli Stati della regione. I rapporti tra i membri dell’Alba dovrebbero dunque essere ispirati dalla cooperazione, i commerci regolati secondo “giustizia” e non secondo la regola capitalistica del profitto.

Il confuso intreccio di nobili propositi e volontà egemonica regionale del Venezuela si risolve proprio nel cosiddetto “commercio giusto”. Una costruzione resa possibile solo dalle sterminate riserve di petrolio che Chávez ha sottoposto, per costituzione, al controllo dello Stato, e che coniuga sovvenzioni di Caracas, comparativamente più ricca, agli altri paesi (con i problemi di sostenibilità e di eccessiva dipendenza che ciò potrebbe comportare), con la condivisione regionale dell’eccellenza cubana in campo medico ed educativo.

Ecco il nucleo essenziale dell’alleanza: lo scambio definito per semplicità “medici per petrolio”. I cardini di quell’accordo illuminano l’intera costruzione del “commercio giusto”: tra i membri dell’Alba è ormai consuetudine il pagamento attraverso beni e servizi. Contribuiscono a pagare il petrolio non solo servizi sanitari o educativi, ma anche, a seconda delle possibilità dello Stato in questione, prodotti agricoli come fagioli e olio di semi. L’asimmetria che ispira i trattati, che ha portato all’abolizione di ogni dazio doganale da parte di Cuba e Venezuela nei confronti della Bolivia in cambio di generici impegni di scarsa rilevanza economica, risulta incomprensibile se vista con gli occhi del libero commercio.

Proprio il libero commercio d’altra parte è esplicitamente negato come fine in se stesso: può essere utile, non deve essere un dogma.

La morte di Chávez è solo una delle ombre che gravano sull’Alleanza. Il presidente venezuelano era solo il simbolo di una stagione politica particolare per la regione, la cui evoluzione di lungo periodo è difficile da prevedere. L’Alba necessita un radicamento oggettivo, composto da legittimità popolare e istituzionalizzazione, spersonalizzazione e rapporti (non solo) economici stabili. Perché ciò avvenga, alla fase negativa di proclamata alterità al modello della globalizzazione liberista - non a caso la prima “A” dell’acronimo stava originariamente per “Alternativa” - si dovrà coniugare una fase positiva, di creazione di un modello di sviluppo autonomo, sostenibile nel lungo periodo non solo in termini ambientali, ma anche e soprattutto economici.

Un ruolo da protagonista lo ricoprono le imprese gran-nazionali (Ign). Tali imprese dovrebbero affiancare e parzialmente sostituire il massiccio numero di multinazionali presenti negli Stati membri: si tratta di imprese a capitale misto pubblico-privato, a controllo pubblico condiviso tra più Stati. Le finalità vorrebbero essere sia prettamente economiche sia sociali. I punti di forza complementari dei paesi della regione dovrebbero infatti essere gestiti, secondo una Mappa economica strategica, da questi giganti pubblici, in modo da aumentarne l’efficienza e vincere così la concorrenza con le multinazionali.

L'obiettivo è garantire il consumo dei beni in questione a masse che ne rimarrebbero prive in un regime ispirato dal profitto. La sostenbilità economica vorrebbe dunque coniugarsi alla legittimità popolare: condivisione delle risorse per un benessere e un sostegno il più diffuso possibile, a partire dalla condivisione del petrolio venezuelano per finanziare la crescita degli alleati: non è un caso che Petrocaribe sia l'Ign finora maggiormente sviluppata, con un fatturato giornaliero di circa 20 milioni di dollari.

Queste imprese puntano anche a consolidare i flussi commerciali tra i membri dell'alleanza: nei primi 5 anni di vita dell’Alba l'interscambio è aumentato dell’80%, enfatizzano i sostenitori; ammonta a un totale di soli 9 miliardi di dollari, fanno notare i detrattori. In questo ambito sarà fondamentale l’evoluzione della cosiddetta Nuova architettura finanziaria regionale, tesa soprattutto a limitare l'utilizzo del dollaro come moneta di scambio tra gli Stati sudamericani (a questo scopo è stata creata una moneta comune, il Sucre) e il ricorso a crediti di istituzioni monetarie internazionali che in particolare negli anni Ottanta e Novanta hanno avuto un ruolo da protagoniste nella regione: il fondo Alba Caribe e la Banca dell’Alba sono solo due tra gli esempi.

I prossimi anni ci diranno se questo ambizioso progetto finanziario è destinato a segnare la storia del continente o verrà ricordato come l’ennesimo esperimento di breve corso, incapace di sopravvivere enza il carisma e la ferma volontà del suo più energico promotore.


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