giovedì 8 novembre 2012

Anatomia della vittoria di Obama negli Stati Uniti.




Fonte: LIMES-Rivista Geopolitica
di Fabrizio Maronta

Obama ha vinto con un margine di voti minore rispetto a quattro anni fa, ma ha prevalso in tutti i battleground States. A fronte di un Congresso diviso, andranno presto affrontate urgenti questioni interne e internazionali.

Obama rivince. Ma non stravince. E l’immagine dell’America restituita dalle elezioni è quella di un paese dai forti antagonismi politici, economici e sociali.

Barack Hussein Obama resta alla Casa Bianca, conquistando oltre 300 dei 540 delegati al collegio elettorale che esprime il presidente (il minimo per essere eletti è 270). Ma lo fa grazie a vittorie di misura in molti Stati e, dunque, con un margine di voto popolare più esiguo di quello (quasi 10 milioni) che si frappose tra lui e lo sconfitto John McCain quattro anni or sono.

Vince però, e bene, nei cruciali battleground States, gli Stati in bilico che hanno deciso questo testa a testa: Colorado, Iowa, New Hampshire, Virginia, Wisconsin, Ohio. Strappa anche il Massachusetts, per sommo scorno dello sfidante Mitt Romney, che di quello Stato fu governatore. Decisivi gli Stati della rust belt (la “cintura della ruggine” orfana della metallurgia pesante), che abbraccia Nordest e Midwest fino a lambire il Sud e che comprende Stati come il Michigan, la Pennsylvania e l’Ohio, beneficiati dal fortunato salvataggio dell’industria dell’auto (a spese, tra l’altro, della nostra Fiat).

La vittoria è motivo di giubilo in campo democratico, ma non giustifica trionfalismi: a parte lo stretto margine di voti, il Congresso rimane spaccato, con la Camera dei Rappresentanti in mano ai repubblicani e il Senato ai democratici. Salvo un ammorbidimento delle posizioni repubblicane su dossier cruciali come il fisco e il welfare, si profila dunque una riedizione del muro contro muro che ha sinora ha impedito, tra l’altro, di scongiurare il fiscal cliff, la “scogliera fiscale” fatta di tagli draconiani che scatteranno automaticamente dal 1° gennaio, se il parlamento non si accorderà sulle urgenti misure di riduzione del debito e contenimento del deficit.

La spaccatura è anche socioeconomica: per Obama hanno votato soprattutto i poveri e le minoranze, per Romney le fasce di reddito più alte e l’elettorato bianco. Il presidente ha visto assottigliarsi, rispetto al 2008, il sostegno di neri, giovani ed ebrei, ma ha pescato a man bassa nel voto ispanico - determinante in questa elezione, in cui 1 votante su 10 era latino, il che ha fatto la differenza in Florida e Colorado - e asiatico. Aiutato in questo dall’aspra retorica anti-immigrazione di Romney, già oggetto di autocritica nel suo team.

Più in generale, ha avuto meglio la tattica della poderosa macchina elettorale di Obama, che sin dalle elezioni di medio termine del 2010 (in cui i repubblicani conquistarono la maggioranza alla Camera) ha gradualmente, ma implacabilmente rimodulato il suo messaggio politico. Non più la speranza quasi messianica di un cambiamento epocale, bensì la pragmatica presa d’atto che, dato lo stato critico dell’economia nel 2008, quattro anni non sono sufficienti a raddrizzare le sorti di un paese compromesso nel corpo (crisi economica, sovraesposizione militare, concorrenza asiatica) e nello spirito (appannamento del sogno americano).

Se la prima campagna faceva appello soprattutto alle emozioni, questa ha puntato in primo luogo sulle ragioni. E ha fatto centro. Chi l’ha votato ha suggellato una riforma sanitaria ancora in fase d’applicazione (entrerà a regime nel 2014), ha sposato l’idea di un fisco più progressivo e redistributivo e, soprattutto, ha vidimato l’ormai pluriennale espansione del ruolo dello Stato nell’economia, a contrasto della recessione.

Un trend iniziato peraltro da Gorge W. Bush, con il primo pacchetto di salvataggio della finanza. Ma la metà dell’America che ha votato per Romney, dopo una campagna quanto mai rancorosa, rigetta in pieno questa visione. Per questo Obama è stato cauto, nel suo primo discorso da rieletto, a non deviare troppo dalla linea del sobrio pragmatismo, sottolineando che la sua vittoria “non pone fine alle divisioni e ai problemi” e che questi ultimi richiedono “il lavoro congiunto di democratici e repubblicani nell’interesse del paese.”

La sua riconferma, comunque, scongiura lo scenario dell’“anatra zoppa” (lame duck), in cui un presidente depotenziato perché dimissionario si limita, tra il voto e l’insediamento (gennaio 2013), alla gestione degli affari correnti. In una fase che vede invece affollarsi numerose sfide - interne ed esterne - nei cieli d’America.

Sul fronte interno, dribblato lo scoglio fiscale, resta il nodo di una ripresa anemica, che crea pochi posti di lavoro e che manca di un’idea forte, di un nuovo paradigma economico su cui puntare con decisione per ridare slancio al paese (storicamente ci hanno pensato le guerre, ma si spera non sia questo il caso).

Sul fronte esterno, alle sfide imminenti - caos siriano, programma atomico iraniano - si somma la crescente rivalità politico-militare con una Cina dalle spiccate tendenze revansciste, a sua volta alle prese con gravi squilibri economici e demografici, con un aumento del malessere e della conflittualità sociale, con una difficile transizione politica e con la crescente insofferenza dell’esercito verso il primato di una leadership civile alquanto appannata.

A tutto ciò si aggiungono le convulsioni politico-economiche dell’Europa, le incertezze sul futuro della Nato (e delle sue missioni, a cominciare dall’Afghanistan) e il logoramento dell’intesa politica con Israele, il cui probabile futuro premier (Netanyahu bis) non ha mai nascosto le sue preferenze per Romney, più incline di Obama - almeno a parole - a un approccio muscolare verso l’Iran.

Resta sullo sfondo il dato di una campagna costata 6 miliardi di dollari (un insulto alla povertà, in tempi di magra) e nella quale circa il 35% dell’elettorato ha votato in anticipo rispetto alla data ufficiale (6 novembre). Il che dovrebbe indurre Washington a porsi qualche domanda sui costi delle campagne e sulla necessità di aggiornare la tempistica elettorale, rimasta pressoché immutata dagli anni Quaranta (dell’Ottocento).


Obama e tutte le minoranze che non sono più in minoranza.

di Enrico Beltramini

La vittoria di Obama arriva dopo la campagna più costosa della storia. Il voto sembra segnare il superamento definitivo del racial divide, grazie anche alla partecipazione cruciale di neri e ispanici. I due partiti entrano in una fase di transizione.

 

 Il presidente uscente, Barack Obama, democratico, è stato rieletto con un margine superiore alle previsioni. Ha infatti ottenuto 303 grandi elettori, 33 in più di quelli necessari a vincere (sui 540 totali).

Di queste elezioni, il dato fondamentale è ovviamente la vittoria di Obama. Saranno presto dimenticate le asprezze della campagna elettorale, e soprattutto il candidato sconfitto: Mitt Romney. L’America non perdona i perdenti. Questa vittoria solidifica la percezione che esiste nel paese la possibilità di una maggioranza democratica permanente e che il “racial divide” è stato decisivamente superato.

Il risultato di queste elezioni era probabilmente inscritto nella mappa demografica del paese: la maggioranza bianca che diventa minoranza, il lento declino del gruppo demografico che ha governato il paese dall’inizio: uomini bianchi (eterosessuali).

I repubblicani hanno ancora una volta puntato su di loro. Dall’altra parte, l’emergenza di nuovi gruppi etnici (ispanici) e sociali (gay, donne) che aumentano il tasso di partecipazione alle elezioni e, insieme a giovani e afroamericani, prefigurano la potenzialità di una maggioranza democratica stabile, una volta che essa sia sollecitata da opportune politiche e messaggi elettorali (immigrazione, abrogazione della legge “don’ask don’t tell”, difesa del diritto di scelta sull’aborto, istruzione).

Ovviamente, la vittoria di Obama può essere spiegata anche in termini più squisitamente politici. Con Obama, l’America ha perso l’occasione storica di chiudere con le guerre culturali che infiammano il paese dai tempi di Lyndon Johnson, ma almeno ha scoperto che, in caso di polarizzazione, i democratici hanno la possibilità di vincere le elezioni almeno quanto i repubblicani.

I democratici non sono più il partito della mediazione: negli anni scorsi, e per la prima volta dal 1968 e dall’emergere della maggioranza che portò Richard Nixon alla Casa Bianca, il paese ha visto l’affermarsi di un movimento ‘da sinistra’. Obama rappresenta il prototipo del centrista radicale, un’innovazione politica che pone il presidente politicamente alla destra e ideologicamente alla sinistra del suo partito.

‘Tecnicamente’, queste elezioni sono state le prime a costare un miliardo di dollari a ciascun candidato. Soltanto otto anni fa, il costo combinato delle campagne di George W. Bush e John Kerry non aveva superato il mezzo miliardo di dollari. È un trend che ha investito i candidati ad ogni livello: vincere le elezioni non è mai stato più costoso. Fondi illimitati equivalgono a una campagna infinita, combattuta su un numero potenzialmente infinito di temi e problemi, su un territorio grande come l’intera nazione.

Queste sono state anche le prime elezioni in cui il presidente in carica ha chiesto voti sulla base del principio del ‘minore tra due mali’. È stato facilitato in questa strategia dalla pessima selezione dei repubblicani, che hanno scelto (sarebbe meglio dire, si sono lasciati imporre dalla logica delle cose) un tecnocrate come candidato. Sono state elezioni di transizione, da un ciclo politico a un altro, e Romney ha nobilmente e coraggiosamente assolto il compito di traghettare il partito e consegnarlo ad una nuova generazione di politici repubblicani.

La rielezione di Obama segnala infine la non eccezionalità della sua prima elezione. Nel 2008 gli americani avevano eletto il primo politico che si identifica con la comunità afroamericana. Questa volta hanno eletto il presidente in carica. Cosa questo significhi in termini di accesso alla presidenza da parte di altre cosiddette minoranze, lo dirà il tempo. Piuttosto, sarà interessante identificare chi tra i democratici succederà ad Obama alla guida della coalizione che questi ha creato. E chi, tra i repubblicani, estenderà la coalizione attuale.

 

 

Obama, un centrista per due Americhe.

di Lucio Caracciolo

La vittoria del presidente conferma il divario tra l'America rurale e conservatrice e quella urbana e cosmopolita. Brindano Europa e Iran, la Cina non è contenta, Netanyahu è il più insoddisfatto. Con il Congresso diviso, servirà tutto il realismo di Obama. 

  

Barack Obama resta alla guida di un'America profondamente divisa. A favore del presidente rieletto si è confermata la vasta America costiera dell'Est e dell'Ovest con le più recenti conquiste del Colorado e New Mexico che hanno ormai infranto la continuità territoriale dell'America centromeridionale repubblicana.


Ma al di là della geografia, quello che conta è la spaccatura tra l'America rurale bianca, profondamente conservatrice se non reazionaria, che ha in larga misura votato per lo sfidante repubblicano, e l'America urbana, ispanica, nera e cosmopolita che si è schierata con il presidente uscente.

Il voto americano come sempre va letto distinguendo il risultato totale relativo ai suffragi espressi, in cui Obama prevale di misura, e il risultato del collegio elettorale, nel quale invece il presidente vince molto agevolmente. Ciò riporta alle antiche ma sempre attuali diatribe sul sistema elettorale, che segnala una evidente diversità tra il voto popolare e il voto dei grandi elettori. A ricordarci la differenza tra uno Stato nazionale europeo e quella federazione americana che per molti aspetti resta confederale.

Chi brinda e chi invece si morde le labbra nel mondo per la riconferma di Obama? Fra coloro che sicuramente festeggiano, in prima linea gli europei. Non solo l'Europa di centrosinistra, anche quella di centrodestra (Merkel e Cameron). Cioè quella vasta porzione del Vecchio Continente che continua a considerare fondamentale e acquisito il rapporto con l'alleato d'Oltreoceano. Di sicuro celebrano anche gli africani, in particolare i kenyoti, che vedono in Obama uno dei loro.

Fra le grandi potenze, forse solo la Cina non appartiene al club dei celebranti. Infatti a Pechino si sarebbe di gran lunga preferito il successo di Romney. Non per una specifica simpatia verso l'ex governatore del Massachusetts, ma perchè si considera Obama un chiaccherone che alla resa dei conti ha fatto ben poco per migliorare i rapporti con la Repubblica Popolare (vedi ad esempio la vendita di armi a Taiwan e lo scontro alla conferenza sul clima di Copenaghen).

In Russia si tira sicuramente un sospiro di sollievo, viste le dichiarazioni, forse solo elettorali, di Romney, che evocavano un'atmosfera da guerra fredda. Paradossalmente, fra coloro che non si addolorano per la riconferma di Obama, occorre annoverare anche gli iraniani. Romney aveva dato luce verde all'attacco preventivo contro l'Iran, Obama invece vuole giocare fino all'ultimo la carta del negoziato.

Per converso, Netanyahu è in questo momento il leader mondiale meno soddisfatto per la vittoria del candidato democratico. Il rapporto personale del primo ministro israeliano con Obama è notoriamente spigoloso. Ma al di là della scarsa elettricità che lega i due, resta il fatto che Obama appare a Gerusalemme se non come un nemico, quanto meno come un alleato ben poco affidabile e troppo disposto ad ascoltare le ragioni dei nemici di Israele, dai palestinesi ai persiani. Per tacere del sia pure cauto appoggio concesso dalla Casa Bianca alle "primavere arabe", che, viste da Israele, sono invece una iattura.

Il secondo mandato di Obama sarà comunque segnato dalla permanente difficoltà di far valere le proprie proposte di fronte all'ostilità del Congresso. La Camera dei rappresentanti resta infatti saldamente in mano al Grand Old Party. Al Senato, i democratici conservano una maggioranza piuttosto ristretta, non tale comunque da garantire a Obama una vita facile. Questo significa che il presidente di un'America iper-polarizzata dovrà recepire buona parte delle istanze dei suoi avversari se vorrà produrre qualcosa di concreto, specialmente sul fronte domestico. Ma in questo, Obama ha già dimostrato nel suo primo mandato una dose di realismo che stride con la sua retorica idealista.

Quando sembrava che la competizione per la Casa Bianca fosse tutt'altro che determinata, Obama ha saputo evitare l'umiliazione di una sconfitta che ne avrebbe fatto uno dei pochissimi presidenti a non essersi guadagnato un secondo mandato. Obama non sarà quindi un altro Jimmy Carter. Vedremo nel secondo mandato se tenderà ad assumere le sembianze di un nuovo Clinton, o se gestirà la parabola del declino come fece Bush jr. negli ultimi quattro anni.


Guerre imperiali

(Articolo pubblicato su la Repubblica l'8/11/2012)

di Lucio Caracciolo

La priorità del secondo mandato di Obama sarà la creazione di posti di lavoro. Tre comandamenti in politica estera: il rapporto con la Cina, l'Iran (attacco o accordo?), la guerra al terrorismo al tempo delle cosiddette "primavere arabe"



Barack Obama è stato eletto per salvare l'America da un'altra recessione, non per cambiare il mondo. E lui lo sa bene. In cima alla sua agenda tre parole: jobs, jobs, jobs.

Ma posti di lavoro e benessere sociale non sono funzione solo del ciclo e della politica economica. Sempre più dipendono dal modo in cui l'America sta al mondo. Dalle relazioni politiche, commerciali e finanziarie con il resto del pianeta, Cina in testa, che non accetta più il Washington consensus e non dimentica che la crisi in corso è nata a Wall Street. Ma anche dalle guerre che l'America deve o dovrà combattere, anche se ne farebbe volentieri a meno. A cominciare dalla guerra al terrorismo, giunta al suo undicesimo anno. Per continuare con il possibile attacco preventivo all'Iran, d'intesa o meno con Israele, che Obama farà di tutto per evitare ma che potrebbe scoppiare per decisione di Gerusalemme e per il rifiuto iraniano di negoziare sul serio.

La differenza fra politica interna e politica estera è che l'agenda domestica si può largamente progettare, mentre il mondo è troppo vasto e imperscrutabile per chiunque pretenda di modellarlo. Fosse anche il presidente degli Stati Uniti. Specialmente un leader al secondo mandato, eletto da un paese polarizzato fra destra nostalgica della superpotenza solitaria e solipsista che fu - reazionaria in casa e bellicosa nel mondo - e centro-sinistra che vorrebbe curare il malandato orto di famiglia e riportare a casa quanti più soldati possibile. Con le casse pubbliche semivuote e con un Congresso spaccato fra Camera in mano a repubblicani spesso estremisti e Senato a maggioranza democratica limitata.

L'unico non indifferente vantaggio rispetto al primo quadriennio è che Obama non può essere riconfermato, sicché deciderà senza farsi condizionare da pedaggi elettorali.

Ad oggi, l'agenda mondiale del presidente reca tre comandamenti. Primo: stabilire che cosa fare o non fare con la Cina. Secondo: decidere se attaccare o meno l'Iran, con o senza Israele. Terzo: adattarsi al terremoto in corso nella galassia islamica - le ormai autunnali “primavere arabe” - per cercare di influenzarlo e modulare di conseguenza la guerra al jihadismo, basso continuo dell'impegno militare a stelle e strisce. Con un occhio all'eurocrisi, se dovesse rimettere in questione non solo la stabilità sociale e geopolitica europea ma la ripresa dell'economia americana.

Quanto alla Cina. A Pechino si tifava Romney. Perché Obama appare ai “mandarini rossi” come un leader inaffidabile, che finge di dialogare mentre riarma Taiwan o li attacca sulla politica ambientale. Peggio: minaccia di trattare la Repubblica Popolare come un tempo l'Unione Sovietica, strigendo attorno a Pechino insieme agli alleati e a veri o presunti amici asiatici - Australia, Giappone, Corea del Sud, Vietnam, India - una cintura di sicurezza destinata a contenerne le ambizioni. Peraltro, oggi si apre il cruciale congresso del Partito comunista cinese, all'insegna di una lotta di potere che investe la nomenklatura e che ridefinirà l'approccio agli Stati Uniti e al mondo. Nei prossimi mesi, quando Obama avrà incontrato Xi Jinping, suo neo-omologo designato, potremo capire se i numeri uno e due al mondo sono destinati a cooperare o a scontrarsi.

Sul fronte Iran, Obama farà di tutto per non impelagarsi in un'avventura bellica dalle conseguenze potenzialmente disastrose. Una nuova guerra del Golfo rischierebbe di soffocare i sintomi di ripresa nell'economia americana, di stroncare la crescita asiatica, di sprofondare l'Europa nella depressione e nel caos. In questi ultimi mesi emissari della Casa Bianca hanno cercato di sondare la disponibilità di Teheran a un compromesso sul suo programma nucleare, in cambio della fine delle sanzioni e della riammissione della Repubblica Islamica nel circuito economico e politico internazionale. Ma Netanyahu, probabilmente il leader mondiale meno entusiasta del mancato cambio della guardia alla Casa Bianca, resta convinto che di pasdaran e ayatollah Israele non abbia il diritto di fidarsi. Le probabilità di una guerra che segnerebbe il secondo mandato di Obama, e non solo, paiono ad oggi superiori alle speranze di pace.

Intanto, la guerra al terrorismo continua. Il maggior successo del comandante in capo Obama è stata l'esecuzione di Osama bin Laden, insieme al ritiro dall'Iraq e al contenimento delle perdite in Afghanistan. Ma le conseguenze impreviste delle “primavere arabe” stanno aprendo nuovi fronti bellici.

Ad esempio in pieno Sahara, dove una manciata di terroristi narcotrafficanti ha piantato il vessillo di al-Qa'ida nel Mali settentrionale per farne una base del jihadismo globale. Questa almeno è la visione dominante a Washington e a Parigi (ex capitale coloniale), sancita dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu, che ha dato via libera a una guerra di riconquista del Sahara perduto, teleguidata da Stati Uniti e Francia. Più in generale, le convulsioni che stanno scuotendo i paesi arabi e islamici costringono Obama a inseguire gli eventi. A conferma che Washington non è in grado di determinare il futuro del Medio Oriente.

Vent'anni fa Henry Kissinger stabilì i termini del dilemma strategico Usa dopo la guerra fredda: «Viviamo l'epoca in cui l'America non può dominare il mondo né ritrarsene, mentre si scopre a un tempo onnipotente e totalmente vulnerabile». Undici anni dopo l'11 settembre, dal suo studio ovale Obama, a dispetto dell'irrinunciabile grandiosità retorica, continua a scrutare l'orizzonte attraverso quel prisma. L'audacia della speranza convive con la cognizione della realtà

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